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“In scena come nella vita, le cose accadono continuamente: al drammaturgo non resta che decidere di volta in volta se allearsi con la realtà o la finzione per raccontare nuove storie che nei casi migliori somiglieranno alla vita”. Si può racchiudere in queste parole programmatiche ciò che muove la scrittura di Magdalena Barile, esemplare autrice e dramaturga, le cui storie provocatorie, insubordinate, disturbanti, somigliano proprio alla vita vera, rivelando al contempo una dimensione estremamente poetica, antipsicologica, simbolica, piene come sono di elementi da districare. Scrive per il teatro pensando ai corpi, a quelli di chi sta dentro e fuori scena. Il suo “disegno e la ricerca di parole e azioni sono tutte sottese alla possibilità di uno scambio reale, di una corrispondenza fra chi il teatro lo fa e chi lo fruisce”. E il risultato è spiazzante. Specie se a tradurlo sul palcoscenico, a rielaborarlo con i mezzi della scrittura scenica, in un mirato rispecchiamento palco-platea, è un regista come Marco Lorenzi, che dello spettatore è un appassionato fautore. Si prenda il nuovo allestimento di Senza famiglia (produzione ACTI, Campo Teatrale, Residenza IDRA, Armunia, Kilowatt, visto a @teatro bellARTE di Torino), e troveremo nella frontalità degli interpreti, nel loro dialogare diretto rivolto a noi, nella complicità di sguardi e posture, nelle variopinte ed emblematiche invenzioni, un quasi naturale potere di coinvolgimento. Si ride molto nella prima parte, mentre qua e là vengono sparsi segnali più conturbanti, sia testualmente che visivamente – come i macabri scheletri di enormi teste d’uccelli indossate dai protagonisti -, determinando l’inquietante parte finale che smorzerà le nostre risate. L’esposizione, raccontata con corrosiva ironia, è quella di un bizzarro nucleo famigliare in corso di deflagrazione, con i suoi ricatti, le sue manipolazioni, le sue cattiverie e mancanze d’amore subito esplosive.
Senza Famiglia_ph M. Giusto
L’incipit è dato da una mordace Nonna vestita di nero – uno spassosissimo attore en travesti, Angelo Maria Tronca – femminista, anarchica e socialmente rivoluzionaria negli anni Settanta, che racconta una storia della buonanotte. L’anziana combattente è risorta dalla tomba ed è tornata tra i vivi per un ultimo tentativo di impartire nuove lezioni di vita – educazione non riuscita precedentemente – alla Figlia casalinga, aiutarla a essere una persona migliore, indipendente, che sappia dire di no, invece ritenuta sciocca e incapace di comprendonio, mai emancipatasi da un marito abulico e dalle richieste vampirizzanti di due figli – la femmina, disconnessa e autolesionista; il maschio, confuso e in cerca della sua identità sessuale -, mettendo i due “passerotti” anch’essi alla prova con una P38 puntata dritta alle tempie, i quali la ammireranno anche per le sue baldanzose asserzioni per poi temerla. Se per diventare adulti è necessario uccidere i padri, pena la mancata formazione di una propria personalità, ecco allora che qui, a dover essere uccisa è la madre. La consapevolezza da parte della Figlia dell’anziana avviene gradatamente – lei che ha sempre sofferto della mancata approvazione materna -, e ci spiazzerà nel finale con un’azione inaspettata alle lezioni della genitrice che la esortava alla vera ribellione: quella “che nasce dall’interno, che richiede consapevolezza e resistenza” le ripeteva. “Io sono perfino risorta per insegnarti a essere libera e ti ho insegnato che un grande cambiamento può avvenire solo se prima si fa una grande pulizia. E tu, per fortuna, sei sempre stata brava a pulire”.
Senza Famiglia, ph M. Giusto
La donna si affrancherà facendo pulizia di tutto e di tutti, avvelenando con una torta marito e prole durante una riunione di famiglia. Favola dark, tragicomica, acida, condita di grottesco, cinismo, eccentricità, con punte di horror e atmosfere alla David Lynch (che ricordano la sua sitcom Rabbits dove si respira un’atmosfera disturbante, misterioso presagio di una fine incombente quanto inattesa dai protagonisti), Senza famiglia è imbastita con la leggerezza e l’acutezza, sapientemente folle e imprevedibile, di cui è capace la mano registica di Lorenzi e degli affiatati attori del Mulino di Amleto – Christian Di Filippo, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Alba Maria Porto, Angelo Maria Tronca. Esacerbando il tema della responsabilità e dell’eredità che ci tramandiamo di generazione in generazione, la messinscena coinvolge anche per le intelligenti invenzioni visive. I personaggi, da un interno domestico simbolico, si collocano tra le sedie da spiaggia con tanto di sabbia appena sparsa, intenti in letture amene – giornali con ricette culinarie, riviste di pesca e di donne nude – indossando costumi con fattezze da pesce salmone, attraversati dalla folata impetuosa di un ventilatore mentre si parlano a distanza da una scala nel vano tentativo di comunicarsi pensieri profondi. Tutti destinatari di un dialogo fallimentare, disturbato, nell’avvicendamento dei diversi quadri, dall’inquietante rumore di un televisore senza programmi, questo nucleo famigliare sembra rappresentare, nell’alienazione dei rapporti falsi e dei sentimenti plastificati, un monito alla stupidità che ucciderà il genere umano. Perché il sonno della ragione, si sa, genera mostri.
Giuseppe Distefano