Aurelio Andrighetto – Dario Bellini
L’accostamento in una sorta di duetto di Aurelio Andrighetto e Dario Bellini è in parte casuale come ogni accostamento, ma in parte, se non necessario, rivelatore e comunque voluto. Sono infatti, secondo noi, entrambi artisti fuori dal comune, per cosi dire, cosi come fuori dalle righe più evidentemente tracciate nel panorama attuale dell’arte. Non sono giovanissimi e lavorano con caparbietà da tempo, l’uno con una fotografia che fotografia non è, soprattutto non nel senso che è più sovente usato in arte oggi, l’altro con il collage, una forma che utilizza in senso propriamente rovesciato.
L’uno e l’altro sono artisti problematici, nel senso che mettono a fuoco punti secondo noi nodali della pratica artistica oggi.
L’uno, Andrighetto, crediamo che stigmatizzi una problematica per cosi dire “all’indietro”, che interroga cioè i fondamenti, o comunque le basi del pensiero e dello studio che sottendono la produzione di un’opera. Lungi dall’affidarsi all’intuizione o al gusto, alla sensibilità o a una vaga concezione di presunta poesia, rivendica per la sua ricerca un sostrato teorico che coltiva con studio e orgoglio. Ha costruito una teoria della visione che analizza le diverse messe a fuoco dell’occhio, la percezione del concavo e del convesso, e insieme il suo legame con la distanza non casuale che separa la mano dall’occhio e la prensilità dalla visione, ma anche il parallelo che ha riscontrato tra tale meccanica e quella logica del sillogismo classico, e dunque del pensare stesso, non trascurando il volo poetico che vede nella fenomenologia non solo la fisica e la metafsica a anche la parafisica, l’apparizione delle anime e la loro spazialità fissurale. Il colore che vediamo ma che non è di fatto presente sull’immagine che guardiamo, non lo è per pura suggestione ma per calcolo preciso e documentabile. Il vedere insomma non va senza conoscere, prova ne è appunto già la sua differenza con il guardare.
L’altro, Bellini, stigmatizza una problematica che per amore di simmetria diremo “in avanti nel senso che interroga sulla novità reale del lavoro artistico d’oggi, denunciando la vaghezza di quello che il più delle volte si dà per tale ma resta di fatto rinchiuso in un orizzonte “ermeneutica”, “applicazione”, che non esce dalle fila dello svuotamento che vorrebbe contrastare. La sua ricerca di novità reale si propone allora come rovesciamento della presunzione altrui e rifondazione dell’arte su una volontà di contenuto piuttosto che di forma. Là dove la forma, afferma Bellini, è diventata autoriflessiva e vuota, proprio il suo uso “generico” va allora a profitto del contenuto, che torna in primo piano e si rigioca in tutta la sua complessità storica, etica, ideologica. Il collage è la pratica artistica che rende possibile questo rovesciamento. Là dove gli altri accostano immagini o oggetti in funzione di una sensibilità o di un’analogia, Bellini accosta in funzione problematica e di contenuto, salvaguardando invece nella genericità il gusto per l’armonia delle forme quasi in senso pittorico, comunque visivo
Stiamo uscendo dal Millennio in costume heideggheriano o altro rétro. Oppure cercando un abito nuovo anche composto di parti vecchie? Possiamo uscire dalla logica della citazione e dell’analogia prendendole alla lettera e cominciando a leggere e a interpretare ciò che riportano, dunque riconsiderando il contenuto del loro prelievo? I collage di Bellini vanno senza dubbio letti, e di nuovo la visione non va solo insieme alla bellezza ma anche insieme alla conoscenza, cosi come l’arte non va senza lo studio.
E poi: il dittico di Andrighetto non ha qualcosa del principio del collage. E la trasparenza duchampiana del supporto dei collage di Bellini non ha qualcosa di una dimensione altra?
Ma torniamo anche alla causalità dell’accostamento, come dicevamo, e non dimentichiamo che se esso è stato voluto per evidenziare queste interrogazioni, l’arte di ciascuno va per una strada propria, che niente deve all’altro.
Andrighetto indaga da anni la luce in tutte le sue manifestazione. Fino a non molto tempo fa lavorava solo con una pila e uno specchio, e della carta emulsionata per fissarne gli eventi. Poi ha guardato la visione – se mi si permette il gioco di parole – e poi, come dicevamo, il pensiero stesso. È naturale che la fotografia sia la tecnica adeguata, macchina monoculare sostenuta dall’ermetico treppiedi, che congiunge modernità radicale e assoluta antichità mitica. Ma Andrighetto scrive anche e gioco nel rapporto parole-immagine – alla ricerca anche qui, va da se, di un “terzo” ulteriore – una parte non irrilevante del suo lavoro.
I primi collage di Bellini erano immagini di stanze vuote semplicemente accostate, poi facciate di palazzi “da geometri” ritagliate l’una dentro l’altra. Talvolta sono stati articolati insieme di materiali diversi raccolti intorno a una tema monografico, talaltra ha usato il video che è un sorta di collage sui generis. Ora i suoi più recenti collage sono complesse e piacevoli macchine di composizione di testi e immagini che legano l’arte alla vita e alla realtà e invitano alla presa di posizione di fronte all’evento o al concetto evocato.
Entrambi hanno modi e temi radicati nella storia, sia artistica che del pensiero, e contemporaneamente entrambi rischiano la loro caparbietà sulla via del nuovo.
Elio Grazioli
dalla cartella stampa della mostra in corso in sede dal 14 gennaio 2000
[exibart][artefiera2000]
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