Sola è il titolo della performance che Marta Jovanović ha agito, lo scorso 16 dicembre, in occasione dell’ottava edizione di Venice International Performance Art Week, usando – simbolicamente e concretamente – i propri capelli per riflettere sulle esperienze di solitudine e isolamento, ma anche sulla solidarietà e sulla speranza che resiste contro di esse. I capelli, scrive la curatrice Anja Foerschner «diventano un marcatore di tempo, essendo cresciuti attraverso le numerose crisi che hanno segnato gli ultimi anni con l’esplosione della violenza in tutto il mondo e in particolare contro le donne».
L’azione è stato un gesto radicale: il taglio – auto praticato – dei capelli e la loro fusione nel vetro liquido. Ne parliamo con Marta Jovanović, fino a scoprire il legame profondo, tra arte e vita, che fonda la sua ricerca.
Marta, ti propongo di iniziare così: cosa resta di Sola?
«Anzitutto, e soprattutto, restano tante emozioni. Poi, nel mondo immanente, resta la scultura di vetro fatta da una giovane donna, Agnese Tegon, la prima donna veneziana a lavorare in una fornace del vetro a Murano, facendo un mestiere tradizionalmente maschile. Agnese ha fuso la mia treccia di capelli nel vetro liquido a una temperatura di più di mille gradi e ha creato una scultura. Quella scultura di vetro di Murano, che contiene i miei capelli bruciati e che evoca Pompei, rimane come elemento tangibile della performance Sola. È stato un grandissimo onore e un’emozione immensa lavorare con lei. Inoltre, Sola diventerà anche un film, che nella primavera del 2024 sarà disponibile sulla piattaforma PAV – Performance Art Video»
«Il significato di qualcosa è determinato nel suo contenuto dall’occasione a cui deve servire, in modo che in tale contenuto c’è di più di quanto vi sarebbe indipendentemente da tale occasione». Hans Georg Gadamer definiva così l’occasione, collocando l’occasionalità nella stessa intenzione dell’opera. Ti chiedo allora, qual è l’occasione di Sola? E che cosa in essa è contenuto che la sua occasione porta alla luce?
«Sola è una riflessione, una misurazione del tempo. Ho smesso di tagliare i capelli, che ho sempre portato cortissimi, durante il primo lockdown nel 2020, e mi ero ripromessa di tagliarli alla fine della pandemia. Poi però sono successi tanti eventi: la resistenza femminile in Iran – con il simbolo della protesta raffigurato proprio dal tagliarsi una ciocca di capelli – e le guerre, Russia/ Ucraina e Israele/Hamas, si sono aggiunte agli altri conflitti nel mondo – pare che senza il bombardamento mediatico dei primi tempi diventi anche minore il valore delle tante perdite umane. Abbiamo anche una guerra in casa, della quale si parla quotidianamente ma per cui sembra che non ci sia soluzione: il femminicidio. Avevo capito pertanto che l’attesa del “momento giusto” non avrebbe avuto fine e ho deciso di tagliare i capelli comunque, per scaramanzia, come auspicio della fine degli orrori che ci circondano».
Che significato dai a questo gesto, all’atto di tagliare i capelli?
«Nei Balcani, nel Sud Italia e nei paesi del Nord Europa, così come nel Sud America, la mamma intreccia i capelli alla figlia, le sorelle l’una all’altra, la nonna alla nipote e così via. È il simbolo della solidarietà, dell’amore e della complicità femminile. Per anni ho osservato la mia miglior amica di Belgrado mentre intrecciava i cappelli a sua figlia; mi colpiva tutto l’amore condensato in un gesto cosi semplice, mi emozionava molto. Mentre mi crescevano i capelli, chiedevo spesso a lei di intrecciarmeli, mi faceva sentire parte della sorellanza, della famiglia, di un profondo affetto. Io non sono cresciuta con quell’esperienza e inoltre da adulta ho sempre portato i capelli corti. Far crescere i miei capelli per Sola, ha rappresentato per me la misura dell’azione del tempo tramite qualcosa prodotto dal nostro corpo. Il tempo e la presenza sono fra le cose più preziose che abbiamo da regalare agli altri, tagliarli – e sono consapevole della violenza del gesto – è stata per me la dimostrazione della fragilità di qualsiasi cosa che vediamo nascere e crescere e che bisogna conservare con cura: la vita, gli affetti, gli ideali e i sogni. Ho preservato i miei capelli nel vetro di Murano fatto da Agnese così come un bruco diventa farfalla tramite la metamorfosi e poi finisce fossile. Analogamente, dopo la nostra vita terrena rimane ciò che si lascia alla generazioni successive. Il taglio dei capelli è stato allo stesso tempo un gesto di liberazione dal tradizionale e tradizionalista cliché su come debba apparire una donna secondo i canoni estetici condizionati dallo sguardo maschile. Noi donne in questo momento storico abbiamo bisogno di essere ancora più unite, ancora più forti. Anche se ci sentiamo sole non siamo sole; dobbiamo sempre pensare che NON SIAMO SOLE, che siamo tante e insieme siamo forti».
Il significato di Sola, e più in generale delle tue performance, risiede in ciò che succede, quindi nei gesti e nei processi che accadono nel corso dell’azione, o è guidato da uno schema concettuale? E qual è la posizione del pubblico rispetto alle tue performance? Che ruolo hanno i processi percettivi di chi guarda?
«Ho vissuto la pandemia in solitudine, da qui il titolo della performance. Ho vissuto anche la violenza domestica e la paura che la mia vita potesse finire proprio lì, in casa, il luogo in cui ogni donna dovrebbe sentirsi maggiormente al sicuro. Sono nata nell’ex-Jugoslavia, lacerata dalla guerra civile degli anni ’90, e la mia performance è stata una chiamata, un urlo per il meglio, una proclamazione di protezione delle donne in tutto il mondo. Come con la mia treccia fusa nel vetro di Murano, cerco di trasformare le mie esperienze traumatiche in opere che abbiano un peso critico, concettuale ed estetico. L’arte è la mia vita e la mia unica arma. Niente è mai il risultato di un’unica azione: tutto è guidato da uno schema concettuale, tenendo sempre presente che la performance in sé è totalmente imprevedibile e dipende da diversi e numerosi fattori. Diciamo che come artista offro una cornice dell’azione, degli oggetti simbolici, una situazione nella quale il pubblico faccia esperienze e a volte anche agisca, come per esempio in LJubav (Amore), 2016».
Quanto impegni la realtà nelle tue performance? E come intendi, o immagini, la realtà oltre la rappresentazione?
«La realtà è un concetto per me troppo complicato. Diciamo che la performance è la realtà cruda, non ripetuta, vulnerabile, onesta, aperta. È quello che succede e nel quale siamo tutti sia spettatori che protagonisti. Nelle performance offro la mia realtà, la mia vulnerabilità e la mia esperienza in un mix di vero e di poetico. Lascio agli altri la percezione, ma anche la mia. Poi il tempo fa i conti con le emozioni dell’esperienza. Per me le emozioni sono importanti quanto il pensiero critico, quanto l’analisi del concetto e più della narrazione stessa».
Qual è il rapporto tra arte e vita nel tuo lavoro? Ci sono vicende esistenziali che legano la tua storia alla storia delle tue performance?
«Ci sono dei periodi nei quali riesco a creare in modo più speculativo, quando riesco a ragionare con maggior freddezza, e poi ci sono delle opere che sono puro istinto, le ho partorite quasi biologicamente. Una di queste è Motherhood (Maternità). Nella performance ho spaccato centinaia di uova di gallina e poi le ho trasformate tramite galvanizzazione in oro a 24 carati. Il numero corrisponde ai miei cicli mestruali a partire dal menarca, avvenuto a quattordici anni. Ogni scultura ha il numero che corrisponde al mese e all’anno del mio ciclo. Ho escluso il mese nel quale sono rimasta incinta e ho abortito, a 24 anni. Non ho mai voluto avere figli. Un uomo importante nella mia vita mi ha detto che non sarei mai diventata donna perché non sono diventata madre. La mia risposta è stata data prima con la performance e poi con l’installazione scultorea di quasi 300 sculture d’oro: le mie opportunità di diventare madre sono state trasformate in oro».
Qual è il presente della performance art? E il suo futuro?
«Da tempo ormai le istituzioni universitarie hanno aggiunto nella propria offerta accademica la performance art come disciplina indipendente dalla scultura e dalla pittura. Pertanto, è già riconosciuta come disciplina delle arti visive. Io personalmente insegno alla RUFA-Rome University of Fine Arts e negli ultimi tre anni i miei studenti hanno presentato più di 150 performance. Abbiamo creato da poco un festival interno, chiamato Performance Cluster e, in collaborazione con diversi partner di rilievo come il MAXXI, gli studenti hanno realizzato le loro performance anche presso spazi museali e gallerie. Questo è un bellissimo momento di crescita per la disciplina e mi sento onorata di trovarmi nel suo epicentro. Inoltre ci sono anche nuovi premi, le residenze e le comunità artistiche, come per esempio la Venice International Performance Art Week. Credo che il futuro della performance art risieda nel corpo umano che ha la sua frequenza imbattibile nella presenza, il resto sono strumenti magnifici ma meno potenti, soprattutto se si considera che il mondo artistico sta cambiando tantissimo, anche grazie a social media e a nuove tecnologie, come la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale».
Forse avrei dovuto chiedertelo in principio, hai un manifesto?
«No. Odio le regole. Soprattutto credo che sarebbe terribile impostare delle regole e poi non rispettarle io per prima. Potrei dire che in generale ho seguito alcuni principi, come quello di non replicare le mie opere né quelle degli altri. Credo che la performance sia come la vita stessa: è una farfalla che vive in quell’istante, nell’istante seguente è già un’altra farfalla. Non penso che la performance sia per tutti e sono serena con questo pensiero. Non sento il bisogno di riconoscimenti, ho bisogno di scambio, di una comunità di individui e artisti che provano e pensano in una certa direzione. La performance è una perla rara e va preservata».
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