L’equilibrio tra vita e morte è una voce bellissima e terrificante, sottile e potente, esplosiva, tormentata, consapevole, passionale. La voce che diventa uno strumento, tra tecnica e magia, di Violetta Valery, Floria Tosca, Desdemona, Cio-Cio-San, Carmen, Lucia Ashton, Norma. Sette eroine tragiche, icone della letteratura e del teatro, che rivivono per pochi istanti, al di fuori della loro cornice scenografica, giusto il tempo di cantare, ancora una volta, la propria fine, come fantasmi, o meglio, ricordi che sfilano, che si susseguono rapidamente ai piedi del letto – sospeso su una pedana qualche metro al di sopra del palcoscenico, lo spazio della vita e della morte – nel quale giace Maria Callas, perfettamente immobile, gli occhi chiusi, il respiro impercettibile. Così Marina Abramovic dà corpo e persona, pur rimanendo autonoma e individuale più che impersonare e riprodurre, la Diva, Maria Anna Cecilia Sofia Kalos, che a sua volta diede voce e corpo, fragile e tenace, a donne immortali, immaginifiche, rivissute migliaia di volte davanti agli occhi della platea del San Carlo, lo storico teatro di Napoli nel quale, in questi giorni, dal 13 al 15 maggio, va in scena “7 Deaths of Maria Callas”.
Nella sua lunga ricerca nell’ambito delle arti performative, Marina Abramovic ha esplorato i confini del corpo e della sua narrazione. Le sue opere sono conosciutissime e ancora dibattute, impresse tanto nella cultura visiva che nella storia dell’arte, identificate con le sue membra nude o vestite, levigate, ferite, percorse da sguardi, rilette nell’affermazione potente della loro fisicità, nella vitalità del sangue. Con “7 Deaths of Maria Callas”, il tentativo è andare oltre il confine, spingere il limite verso quella sensazione destinata a rimanere per sempre inconoscibile e che, proprio per questo, si presta a infinite interpretazioni. Tra le quali, appunto, le voci del teatro operistico, effimere per eccellenza, fondate sulle categorie della presenza in un momento preciso e irripetibile eppure potenzialmente bloccate in un’immagine, in una icona appunto, nel caso specifico quella di Maria Callas.
A riattivare questo moto circolare, il corpo vivente di Abramovic, che performa gli ultimi momenti di Callas, assistendo alla rappresentazione delle morti: Violetta muore di tubercolosi, La traviata, Tosca si tuffa nel vuoto, Desdemona strangolata da Otello, Cio-Cio-San si suicida, in Madama Butterfly, Carmen accoltellata da Don Josè, Lucia muore di pazzia, nella Lucia di Lammermoor, Norma si getta nel fuoco. Ogni aria è interpretata, rispettivamente, dalle ottime Selene Zanetti, Valeria Sepe, Nino Machaidze, Kristine Opolais, Annalisa Stroppa, Jessica Pratt, Roberta Mantegna (fragorosi gli applausi per loro, alla prima del San Carlo). Sullo sfondo, in dialogo con le voci delle cantanti, scorrono i video interpretati, non senza una certa vena di scura ironia, dalla stessa Marina Abramovic e da Willem Dafoe, che spesso gioca il ruolo del carnefice, eppure si sottomette all’aura eroica della donna morente, che sia il personaggio dell’opera o l’interprete a questo punto non fa differenza.
E poi, Maria Callas muore di crepacuore. La scena cambia, l’ambiente ritorna quello quotidiano e diurno, bene arredato, quadri alle pareti, vasi di fiori freschi, un telefono sul comodino, un giradischi e un metronomo. Marina Abramovic entra nell’ultima camera di Maria Callas, il giorno 16 settembre 1977. Lasciandosi alle spalle le voci delle sette morti – sognate o ricordate, oppure premonite? – si affaccia alla finestra di Avenue Georges-Mandel 36, lascia entrare l’aria e la luce della città, i suoi rumori, la sua vita che scorre, «È solo Parigi».
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