Categorie: Arti performative

Artisti, cyborg, mostri. Chimere

di - 17 Marzo 2024

All’indomani della mostra Post-Human curata da Jeffrey Deitch nel 1992 al FAE Musée d’Art Contemporain di Losanna, il corpo umano da luogo rituale e simbolico cominciò ad essere diffusamente percepito come possibile fulcro di alterità, bio-diversi­ficazione e tecno-morfosi. L’evento, considerato a tutt’oggi come primigenio di un certo tipo di estetica e cultura per l’appunto “postumana”, non si colloca come una monade in uno spazio-tempo indefinito. Anzi è in verità sia il punto di arrivo di una lunga storia di contaminazioni tra arte, tecnologia e scienza nelle ricerche sul corpo, che a partire dalla Seconda Rivoluzione Industriale ha caratterizzato in modo continuativo tutto il Novecento, sia il punto di partenza per una serie di esperienze che proprio dalla metà degli anni Novanta hanno visto certa arte contemporanea dialogare sempre più spesso con gli ambiti delle neuroscienze, delle biotecnologie, della prostetica, della genetica e del bodyhacking, estendendo l’immagine del cyborg da creatura della fantascienza a costrutto naturale-artificiale appartenente sempre più alla dimensione del reale.

Aimée Mullins, Photo by Howard Schatz, Schatz & Ornstein 1987-2022
Hather Dewey-Hagborg, Stranger Visions, on display at Artefact, photo by Carolien Coenen, 2015

Quando nasce la fusione tra uomo e macchina nell’arte?

L’attuale fascinazione verso il progresso tecnoscientifico e le crescenti polarizzazioni sui suoi possibili effetti sulla società e i nostri corpi in dialogo con l’ambiente non sono altro infatti che la coda lunga di un pensiero collettivo che trovò nelle avanguardie artistiche di inizio del secolo scorso un primo importante controaltare. Da un lato nel Futurismo, con la sua spinta verso un futuro raccontato attraverso iconografie ricche di contaminazioni tra corpo umano, macchina e scienza. Dall’altro nel movimento Dada – ma anche del Ready-Made duchampiano – che abbattono l’idea illuminista del corpo sano e funzionale, aprendo la strada a una graduale accettazione del diverso, dell’imperfetto, del di­sfunzionale, del corpo che necessita riparazione dopo gli orrori e le mutilazioni della prima guerra mondiale.

Marco Mancuso, Chimera
Rebecca Horn, Berlin Exercises in Nine Parts. Scratching Both Walls at Once (1974-1975), Rebecca Horn Collection, Zurich, (2019)

Perfettamente calato all’interno di questo contesto storico, sociale e artistico, anche il Bauhaus fu affascinato dalle possibilità di estensione del corpo oltre i propri limiti formali, nonché dalla ricerca di nuove e più profonde modalità di relazione con il conte­sto circostante. In particolare attraverso gli studi di Oskar Schlemmer per il suo Triadic Ballet (1922), in cui un corpo “esteso” per mezzo di costumi-sculture basati su figure geometriche primarie, si muove in uno spazio caratterizzato da invisibili linee di forza ed energia, fatalmente in grado, grazie alle sue estensioni, di risco­prire la natura più profonda del mondo in cui si trova immerso. Per non parlare delle opere e delle performance di Re­becca Horn qualche decennio dopo, incardinate sulle possibilità di espansione del corpo umano nell’ambiente grazie a strutture prostetiche, o delle tecno-performance degli anni Novanta, in cui il corpo considerato ormai “obsoleto” è definitivamente abbandonato – come ripetuto a più riprese da Stelarc – e aumentato grazie alla tecnologia in quanto minus organico, fragile, biologicamente inadeguato e disfunzionale.

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