Se il magazine inaugurato nel 2023 per narrare le trasformazioni del nuovo corso di Centrale Fies declamava – e declama ancora – Tell mum the spell worked, il racconto del programma 2024 della cattedrale italiana della performance è affidato – con l’impronta inconfondibile di Virginia Sommadossi – a un dessert devastato, a un pasticcio dai colori violacei e torbidi, e quindi suadenti, elaborato dalla pasticciera e cake designer queer di base a Berlino Hana Betakova.
Oggetto del desiderio e del raccapriccio insieme, questa torta, fatta di unghie di glassa, ciliegie, colature, filamenti, apre a un universo immaginifico ma insieme molto concreto. Ci racconta che no, l’incantesimo non ha funzionato e non ha senso tentare una seconda volta: siamo da tempo scaraventati nel gorgoglio, nell’abisso, nel ribollire della materia. I frutti puri sono impazziti, lo annunciava l’antropologo James Clifford negli anni Novanta nel fiorire dell’apparato mitico della globalizzazione, e ora finalmente stanno marcendo. In questa marcescenza i resti, gli amabili resti, generano sapori inaspettati, forme di vita miscellanee e infestanti, ectoplasmi, odori e colori virali, aromi ancora non classificati.
Il progetto positivista è fallito e possiamo goderci le forme disorganizzate di questo fallimento, come suggerisce Jack Halberstam: possiamo disordinare, scomporre, leccare i confini tra i corpi, scegliere di stare in un altrove, un altrove situato, per esempio una centrale elettrica tra le palme e le creature selvatiche nel Trentino, ma anche un altrove inteso come contesto dove i pensieri trovano lo spazio per l’insubordinazione, per spostare e spostarsi, cercare e rinnovare forme di alterità e alterazione consapevole.
Il programma di Centrale Fies ha infatti aperto quest’anno con una corrente di saperi e azioni magmatica e sensuale in due weekend di luglio, con le sezioni Live Works e Feminist Futures.
Una costellazione di pratiche e desideri, coazioni e vortici ha inaugurato la prima fase pubblica del programma Live Works, in una cornice ad alta tensione, a cura della direttrice artistica Barbara Boninsegna e di Simone Frangi e la complicità di Justin Randolph Thompson e Mackda Ghebremariam Tesfaù, con accensioni che hanno visto scintillare sui palchi figure e ritmiche che incidono i battiti di questo tempo.
Kae Tempest, poeta, rapper, artista, identità trans, non binary, che con le sue rime sincopate canta l’amore e il dolore di albe livide e di notti che si spalancano spietatamente al feroce candore del giorno, trattenendo una traccia intima, corporea, sussurrata della devastazione e della solitudine di un mondo mangiato dal caos, dove posizionarsi come rifiuto è forma di distinzione.
Oltre a Tempest, tra le guest Sammi Baloji in un concerto performativo Fragments of Interlaced Dialogues, e Sama’ Abdulhadi, regina della scena techno palestinese, musicista, dj e attivista, che ha fatto danzare l’urgenza dei deserti e i beat provenienti dalle scene underground del mondo arabo da Beirut a Ramallah, portando i bassi e i ritmi di un popolo che rifiuta di farsi schiacciare dalla guerra e che trova nella musica un terreno di resistenza.
Insieme a loro hanno presentato i lavori artisti Eloy Cruz del Prado, Alessandra Ferrini, Liina Magnea, Melis Tezkan con Nil Yalter, Valerie Tameu, Mohamed Ali Ltaief in una densa cornice di approfondimenti teorici.
In Feminist Futures, a cura di Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta le esplosioni di Live Works atterranno in un paesaggio di morbidezze sensuali, regni oscuri in cui disseminare pensieri, voci, desideri, segni cifrati. Possiamo accedere al mistero che questo attraversamento nella storia attuale lascia: siamo negli echi, negli ascolti, nel day after, in un post futuro dove riscrivere, immaginare, disossare le tracce lasciate. Gli archivi sono bruciati, giochiamo con i cocci. Diventano codici.
Negli spazi della Forgia, ci attende in posture orizzontali e languide Chiara Bersani con le performer Anna Maria Pes e Chiara Pintus, distese su un arazzo purpureo realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council destinato alla Galleria GAMeC di Bergamo, a cura di Lorenzo Giusti. Il disegno di un albero della vita sinuoso e multispecie, o meglio, di una foresta di corpi, non conformi, eterodossi, rivoltati alla gerarchia della verticalità o dell’organismo – inteso qui, sulla scia di Artaud, come sistema ordinante e normativo -, riscalda la fredda temperatura colore del cemento della Forgia evocando una sorta di harem, luogo umido, di cura e di affetti, di posture accoglienti.
Dalle vetrate in fondo si scorge il selvatico, che attende e osserva, e penetra come latenza. Da un altrove. Frange come cordoni ombelicali, peli di balena, filamenti di bisso marino, escono dal volume centrale della trama, corpi alieni nella loro ruvidezza, eppure sensuale, materica, tentacolare, mentre un oceano di suoni, echi, sospiri, gemiti, amalgamati dal tocco musicale di Lemmo, apre il contesto pubblico a una condizione intima, al piacere e al dolore, al desiderio, alle dimensioni più sorgenti e meno narrate della disabilità. Nel sottile, nel segreto, nel puntuale una partitura di gesti genera una coreografia che è codice cifrato e non chiaramente visibile, lingua oscura come è la lingua di furfanti e poete. Linguaggio per evadere, disertare, abbandonare il campo, essere campo.
In un tempo lungo, dissolto, le tre figure, tra incontri, attraversamenti e richiami sotterranei, lasciano il tappeto, lo liberano. Restano i suoni, gli ascolti, lo spazio fuori, i fantasmi dentro, i desideri. È una superficie che pulsa e che piano piano invita a un suo spossessamento. Ci troviamo lì, ad abitarlo, a moltiplicarlo, senza permesso.
Tra intrecci e filamenti si apre anche la performance di Muna Mussie con Massimo Carozzi Cruna. Uno spazio per tessere. Tessere, infatti, come le tessere nere, installate in scena su un cubo bianco, dove sono ricamate in oro dall’artista le parole di Faccetta nera, qui scomposte, rilette, sussurrate, fatte a pezzi. Epurate inoltre da tre parole chiave non causali: faccetta, schiava, abissina. Tessere, anche come l’atto di tendere nel nero i fili, connettendoli in una trama, in un telaio spaziale, che ostacola il passaggio, lo segna, moltiplica i piani.
Qui l’oro riluce e paradossalmente riflette un’oscurità misteriosa e fondamentale. Lo stesso oro che l’artista indossa in minuti elementi di oreficeria tradizionale e che brilla, perturbante, su un costume nero dal chiaro richiamo militare.
Piccoli dettagli che, nel comporre sottile ed elegante di Muna Mussie, creano una partitura di accenti, una maglia linguistica che interroga e disorienta, come accade nel mistero, mettendoci di fronte a uno degli episodi più turpi della storia del nostro paese, l’onta del colonialismo, in un algoritmo di segni, di codici sottili e cifrati. Ci interroga e disorienta come accade nel mistero, con la sua presenza, portandoci in un universo tra il visibile, l’invisibile e il tattile, tra l’udibile e l’inaudito. Gli occhi sono chiusi, come in un volontario oblio, tema focale della ricerca dell’artista, che, in questo boicottaggio dell’aperto e dello sguardo, diventa affondo, perdita, immersione in una memoria raggiungibile solo attraverso l’abbandono. L’azione evoca rituali, marce di guerra, danze tradizionali, attraverso una trama di gesti scomposti e composti, spezzati, appuntiti, puntati.
Le sonorità di Massimo Carozzi, esito di una ricerca nata dalla collaborazione con Muna grazie all’invito di XING e della nutritissima etichetta XONG – dischi d’artista, raccolta nel vinile Curva Cieca Oblio accompagnano la performance. Inciampi, echi, apnee, cuciture acustiche nomadiche nel live dialogano con il canto dal vivo in lingua Tigrinya della performer, secondo una ripetizione modulare dove ondeggiare e sostare nelle curvature di questo oblio, dove peregrinare in temporalità che sfuggono e a volte incalzano la linearità cronologica.
Attraversa sonarità barocche e cristalline e timbri concreti la voce stupefacente di Sofia Jernberg nata in Etiopia e cresciuta tra Etiopia, Vietnam e Svezia, che ha presentato la performance De sospiri. Tra sospiri e lamenti il canto coreografico di Erna Ómarsdóttir, qui in omaggio al musicista islandese Jóhann Gunnar Jóhannsson.
A chiudere il programma di performance è la coreografa Anne Lise Le Gac con la performer Anat Bosak, con la sua compagnia OKAY CONFIANCE, negli spazi della sala Comando della Centrale, nomenclatura che appare qui distopica, ironica e perfettamente mirata per il lavoro.
Bosak al piano terreno attende indicazioni con un walkie talkie, per condurci in DOPA o meglio in SYNUSIA di DOPA, un territorio vischioso e pericoloso, – come lo sono le artiste, sussurrano piccole voci -, un dungeon di oggetti sensuali e inquietanti che prendono vita, si attivano, si fanno bere, ci nutrono e assetano. Lo spazio è spappolato, senza coordinate, come una creatura invertebrata multiforme che si dispone negli interstizi tra il pubblico, le cose e le performer. Le azioni si muovono tra i props, in un’interzona dove tutto muta e ribolle. Ocarine, candele di cera, vulcanetti rosa fluo, gelatine ci deragliano in un continuo hackeraggio del sistema e della scena per condurci alla fine nelle profondità del dark web. Qui troviamo codici per nuove alleanze, istruzioni, dichiarazioni in difesa del popolo palestinese e accuse del genocidio attualmente in corso, ma soprattutto contenuti per costruire, in contesti vicini alla fine e in una prospettiva di decrescita, nuovi spazi di commoning.
Un auspicio dal vigore punk e queer per i prossimi Feminist (no) Futures.
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