Categorie: Arti performative

Centrale Fies, prendersi cura delle arti performative: la parola a Virginia Sommadossi

di - 25 Settembre 2023

È il primo esempio in Italia di recupero di archeologia industriale a fini artistici e culturali. Si tratta di Centrale Fies, centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee, situato a Dro, all’interno di una centrale idroelettrica di inizio novecento, in parte ancora attiva, proprietà di Hydro Dolomiti Energia. Avviato nel 1999 da Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi con la Cooperativa il Gaviale, a partire dall’esperienza del festival drodesera, il progetto rappresenta una vera e propria impresa culturale e ogni anno viene attraversato da artiste e creativi provenienti da ogni parte del mondo e supportati su vari aspetti, da quello curatoriale a quello produttivo, tramite residenze, sale attrezzate, assistenza tecnica, aree di coworking, fundraising e amministrazione, networking nazionale e internazionale. Di questo e di altro ancora, parliamo con Virginia Sommadossi, Communication Manager e Creative Director di Centrale Fies.

Sei parte integrante e creativa dello storico progetto di Centrale Fies, che ormai ha quasi 25 anni, e che racconti con passione quando accogli i diversi e numerosi ospiti che, soprattutto da giugno a settembre vengono in visita a scoprire ciò che in quel luogo a Dro avete sviluppato durante l’anno. Ci racconti qualcosa dalla nascita grazie alla lungimirante idea di Dino Sommadossi e ai progetti realizzati da Barbara Boninsegna, i due fondatori?

«La nascita del progetto risale a un festival, chiamato Drodesera, nel 1980: un festival che non aveva spazi dove presentare performance e spettacoli ma cortili, piazze, fiumi, giardini e strade, e che di quella situazione ne fece un punto di forza. All’inizio del progetto Centrale Fies c’è dunque un prequel di territorio urbano fatto anche di case abbandonate, ruderi e aree che rendevano ogni proposta artistica site specific. Ma più le produzioni cambiavano, più le schede tecniche, gli artisti e le artiste progettavano lo spazio scenico in maniera differente, più era chiaro che ci sarebbe stato bisogno di una casa, di uno spazio diverso e al chiuso ma non banale.

L’individuazione di una centrale idroelettrica è avvenuta a metà anni ’90, in quel periodo, c’era in atto una provincializzazione delle centrali elettriche, che dava adito a una sorta di battaglia economica e politica sull’uso di tali strutture, ma nel 2000 nuovi regolamenti europei sull’energia elettrica soffiarono il monopolio ad Enel in favore di altri soggetti, dando vita a un cambio attitudinale. Poi con la nascita di una nuova società Hydro Dolomiti Energia si ottenne un comodato più lungo della struttura, tale da poter pensare a importanti ristrutturazioni nell’ottica di rigenerare completamente lo spazio.

Oggi Centrale Fies ospita professionisti e professioniste da tutto il mondo, unendo Accademie internazionali di arti performative che aprono e chiudono gli anni accademici, una produzione e continua di performance e spettacoli, progetti di residenze artistiche e mostre di arti visive legate alla performance».

Da quando hai iniziato a lavorare come direttore creativo e responsabile della comunicazione di Centrale Fies?

«Ho iniziato dopo un percorso, alla fine dell’università, accanto ad Alessandra Pescetta, regista di film e cortometraggi ma che al suo attivo aveva soprattutto un’importantissima carriera da pubblicitaria, e una serie di regie per alcune delle più belle pubblicità italiane degli anni ’90 e 2000. Starle accanto mi aveva fatto scoprire un modo differente di approcciarmi alla comunicazione e all’immagine, in generale, decisamente distante da quella dei festival e delle realtà culturali di quegli anni. Dal primo anno del mio incarico ho iniziato a lavorare su una produzione di immagini ad hoc e a concept e titoli specifici per ogni edizione del festival, cosa che ad oggi è diventata molto comune, ma che al tempo spesso si risolveva in foto di scena di uno degli spettacoli in programmazione.

Il mio lavoro iniziale era quello di creare una drammaturgia che ricucisse tutte le opere, seguendo diversi criteri, a seconda degli anni, in questo modo si potevano alternare tagli politici, estetici, o legati alle pratiche e alla ricerca, così come alla filosofia politica e all’attualità.

Oggi il mio lavoro è mutato seguendo le trasformazioni di Centrale Fies, e non si tratta più solo di lavorare su delle tematiche e di seguire la produzione di immagini, ma di diventare porose e immettere anche nelle pratiche di lavoro quotidiano quell’attenzione specifica che artisti, artiste e attivisti attuano. Molte questioni sostenute, praticate e sperimentate in questo centro sono diventate imprescindibili anche nel dibattito pubblico, e parte del mio lavoro è anche quello di seguirne le evoluzioni, schierandosi e sperimentando in prima linea, per chiedersi continuamente quale sia la posizione del centro. Anche la rinegoziazione coi pubblici o con chi legge i contenuti di social, siti e comunicazione, cambiano di segno: un pubblico completamente nuovo, con cui risuonare, sembra avere il potere di ridisegnare paesaggi e contesti al di là di quelli già immaginati.

Forse è anche per questa attenzione e delicatezza nei confronti del linguaggio che Centrale Fies, nel 2022, viene selezionata all’interno della rete europea apap-Feminst Futures, per creare una nuova identità visiva. La rete europea, di ispirazione xenoemminista, sceglie di non lavorare tanto sul tema del femminismo all’interno delle produzioni artistiche, ma si chiede cosa voglia dire immaginare il femminismo come metodo, come esercizio critico, come etica, sperimentando uno switch nei modelli di relazione interni/esterni alle strutture e nelle relazioni tra art-worker, e coi pubblici».

L’approccio, sia nei confronti degli artisti che ospitate durante l’anno e quelli ospiti delle performance dei Festival, che di tutto il pubblico generale che viene a trovarvi è molto famigliare. Venire a Centrale Fies significa sentirsi a casa, in libertà. Almeno è quello che ho provato quando sono stata a vedere il bel progetto “Feminist Futures”. Questa attitudine è stata impostata sin dall’inizio? O si è creata negli anni?

«Quello che da fuori si può chiamare “familiarità” credo sia legato a quel senso di accoglienza e apertura che abbiamo verso la sacralità delle persone ospiti, siano professioniste, pubblico o curiose. Chiunque arrivi a Centrale Fies non potrà fare a meno di notare i poster con delle “awarness guidelines” del centro, che invitano ad essere accoglienti e in ascolto delle persone, a fare attenzione al linguaggio e agli atteggiamenti che possano anche solo portare piccole tracce di sessismo, fatfobia, transfobia ecc. Li abbiamo stampati in doppia lingua e distribuiti gratuitamente con l’invito a prenderne un numero desiderato, per posizionarli poi a loro volta in luoghi che ritengono importanti o strategici. Abbiamo contagiato così case private, negozi, bistrot, librerie, ristoranti, uffici, centri di ricerca scientifica, spazi di co-working, case editrici, spazi comuni di varie università dentro e fuori dai confini nazionali.

Ammetto che questo allenamento all’accoglienza ci ha trovato pronte quando abbiamo scelto di compiere un passo ulteriore verso la sperimentazione di modelli lavorativi alternativi a quelli apicali, che spesso si trasformano in dinamiche di potere.

Questo allenamento all’ascolto ha portato alla collaborazione con l’altro da sé all’interno dell’organizzazione, aprendo il concetto di “ruolo” dinamizzandolo temporaneamente. Ovviamente non si pone come pratica definitiva ma si affianca ad altri e diversi modi, e li stiamo sperimentato molto nel team di comunicazione con Elisa Di Liberato e Lucrezia Di Carne. Credo che anche questo trapeli. Poi non è il luogo perfetto, siamo fallibilissime e queste modalità hanno anche qualche controindicazione, ma è anche il termometro della dedizione e della missione che Fies ha: prendersi cura delle arti performative, di chiunque vi lavori, di noi che ci lavoriamo».

All’interno di Centrale Fies gestite anche una scuola di performance, ormai nota internazionalmente, e delle produzioni che poi vengono sviluppate anche all’esterno (penso al teatro della Triennale, ad esempio)?

«Centrale Fies ha, da subito, puntato su azioni di cura, quella dello scouting è arrivata in modo naturale. Direzione artistica, curatori e curatrici hanno la capacità di selezionare, accogliere e far crescere ogni cosa grazie a modalità di residenza lenta, nella quale ogni artista e ogni lavoro trova il giusto tempo e gli strumenti per dare forma, gesto e linguaggio all’idea. Negli anni si è consolidato questo ruolo, per Centrale Fies, di spazio in cui artiste e artisti che poi vengono consacrati nelle città più grandi o in realtà internazionali importanti.

Non è raro scoprire a Fies, con un’anticipazione di anni, artiste e artisti che poi vincono premi importanti come La Biennale Arte di Venezia (Lina Lapelyte), l’Ubu come miglior spettacolo (Sotterraneo) La Biennale danza e teatro (Sciarroni e Anagoor), o come nel caso di Alok Vaid Menon e di Binta Diaw diventano acceleratori di pratiche e posture, non solo tematiche, importanti negli ambiti della decolonizzazione o dei diritti. È fondamentale che le produzioni di qualsiasi natura performativa, non restino lì ma varchino i confini, trovino altri pubblici con cui dialogare, altre strutture pronte ad accogliere, altre sfide da affrontare. Si lavora moltissimo affinché questo accada».

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L’attenzione alla ricerca performativa, alla commistione culturale e all’attenzione al legame tra corpo e musica sono sempre stati motivi conduttori del progetto di Centrale Fies?

«In realtà no, sono arrivate col tempo. Centrale Fies ha sempre creato uno spazio-tempo per la fragilità della ricerca. Si è sempre preoccupata e occupata di non mettere alcun tipo di paletto all’artista, cercando fondi, luoghi e contesti dove non solo poter sperimentare ma anche imparare, confrontarsi, cambiare, scartare, ricominciare da capo. E la fragilità della ricerca, negli anni (ora mi riferisco di quello che per altri 20 ha preceduto la nascita di Centrale Fies. Ossia il festival Drodesera), è stata nel teatro di strada, in quello civile, nel teatro danza, nella danza in strada, nella danza e architettura, e mano a mano che queste sperimentazioni trovano un codice, un nome e un mercato andavano a riempire i teatri e le gallerie – da quelle vicine a quelle più distanti, solitamente con un processo al contrario, prima all’estero nei grandi centri e poi nuovamente locali- , Centrale Fies le lasciava andare per prendersi cura di qualcosa di più piccolo, di meno popolare e sconosciuto, per poterlo far crescere.

Anche se il segreto, forse, è sempre stato l’approcciarsi alle discipline performative non con l’intento di farle crescere, ma con una curiosità e un’apertura tale da voler imparare a vedere in modi sempre nuovi, con filtri e lenti di ingrandimento sempre differenti».

L’attenzione per la performance, per il corpo e il suo movimento ti porta anche fuori dal contesto di Centrale Fies. Il 14 settembre inaugura un altro progetto che stai seguendo: “Le alleanze dei Corpi”. Questa volta però trattasi di performance e azioni diffuse per la città di Milano, non più sotto uno stesso tetto. Fabbrica del Vapore, Parco Trotter, Parco Lambro, Boscoincittà, Kinlab sono i luoghi ospitanti in diverse aree della città. Hai qualche suggerimento da far seguire a chi verrà a trovarvi? E, magari, qualche anticipazione?

«L’arte mi ha insegnato a essere porosa e generosa anche per tutto quello che a mia volta prendo e imparo dalle altre persone e dagli altri contesti. Così come il lavoro di artiste e artisti non ha senso che rimanga chiuso all’interno di Fies, mi piace mettere a disposizione il mio know how in progetti che seguono le linee politiche e di ricerca per le quali ho scelto di dedicare totalmente il mio lavoro e la mia vita. È Successo con Iuav (Venezia) all’apertura di un corso con istanze dalle posizioni ben chiare e articolate sotto la lungimirante direzione di Annalisa Sacchi; con Milano Mediterranea (Milano) il primo centro di arte partecipata italo-arabo curato e ideato da Anna Serlenga e Rabii Brahim, e oggi con Le Alleanze dei Corpi un progetto complesso che ha scelto la forma festival per immettersi attivamente nel cambiamento reale di una città in continua trasformazione, Milano.

Decolonizzazione, linguaggi inclusivi, xenofemminismi non sono temi coi quali ribrandizzare i progetti, ma posture che chiedono studio e speciali attenzioni: qual è il posizionamento che abbiamo personalmente con le altre persone e di conseguenza anche dei nostro progettare cultura? Siamo in grado di essere all’altezza o coerenti o anche solo di mettere in campo le istanze che artiste e artisti performativi, spesso attivisti, propongono nelle loro opere come una delle modalità di cambiamento del mondo? Lavorare per e accanto a Maria Paola Zedda, nel contesto de Le Alleanze dei Corpi, vuol dire credere e sostenere un progetto che sposta i confini dell’attenzione su territori già battuti dalla politica locale e dai progetti sociali, in cui l’arte però può dare ancora un contributo seminale.

Il programma de Le Alleanze dei corpi (14 settembre – 18 ottobre 23, Milano) non solo nutre pubblico e territorio con spettacoli, incontri e performance, ma dà il via a un simposio libero e di impronta decoloniale (HOW TO DECOLONIZE THE CONTEMPORARY DANCE, 23-24 settembre, Parco Trotter – Parco della Martesana) un laboratorio orizzontale in cui si condividerà pratiche e teorie sul tema del corpo nella contemporaneità, sui contenuti e sulle estetiche che veicola, e su come queste si rifrangono sulle forme artistiche del presente, con un focus particolare sulla danza e sulla performance. Qui il concetto di “decolonizzazione” della danza contemporanea è anche una riflessione collettiva sui corpi che incarna e cui si rivolge e sull’accessibilità, dando spazio a pratiche e pensieri molto spesso lasciati completamente fuori dalle accademie di danza. Saranno due giorni di incontri, lecture, performance, momenti di sharing training, improvvisazioni, dialoghi, statement, momenti poetici e djset».

La dicitura “spazio in comune” richiama già l’attitudine inclusiva portata avanti da Centrale Fies. Credi sia ormai l’aspetto più importante per questo tipo di arti visive, legate alla performance?

«Sono sempre di più le realtà che praticano questo tipo di approccio all’arte in quanto strumento politico per moltiplicare le narrazioni e dare una visione più autentica e articolata del reale, così come dell’immaginifico. Forse non è l’aspetto più importante in assoluto, rimangono comunque un’attenzione mai sazia e altissima alla qualità dei lavori, delle e degli artisti, ma è certamente una componente che permette di agire nel politico e nel quotidiano importante, personalmente necessario. Farsi tassello e prendere parte a una rete di persone, progetti e realtà che credono ferocemente in un mondo differente sul piano dei diritti, della pluricità degli sguardi e delle narrazioni non mainstream».

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