Nel 1963 Andy Warhol gira Kiss, un film muto, in 16mm in cui delle coppie si baciano per circa 3 minuti. Kiss è il progetto laboratoriale di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo che – tra le altre tappe – ha visto delle aperture pubbliche durante la scorsa edizione di Santarcangelo Festival. Ma non solo: Kiss ha abitato il Festival durante i suoi dieci giorni, e i/le 23 performer protagonisti hanno condiviso lo spazio di una palestra, luogo di scena, di vita e di prove (alcune delle quali aperte al pubblico).
Una performance in cui stare, fatta di temperature e corpi che si impressionano l’uno sull’altro nell’atto del bacio.
La serigrafia, cara a Warhol, viene ripresa in scena, la bidimensionalità fotografa l’attimo di adesso che è, simultaneamente, un attimo prima e quello dopo, il tempo cambia sapore.
«Abbiamo tentato di estrapolare le tecniche di composizione che Andy Warhol applicava al visivo e sperimentarle sul corpo e sul gesto, ad esempio serigrafare un gesto, serializzare un bacio, o anche alcune modalità grafiche di raffreddamento dell’immagine», raccontano Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, che ho incontrato a Santarcangelo Festival, a chiusura del triennio diretto da Eva Neklayeva con la co-direzione di Lisa Gilardino.
Non ci si scorda di ciò che c’è fuori, dietro la porta della palestra ma, anche, dietro la temporalità del Festival in cui la performance è ospitata. La realtà, con la sua inesorabile fine, è presente in scena e in noi che guardiamo, si coglie un sentore di nostalgia nella bellezza che abbiamo davanti, ma il bacio riesce a essere più forte, arrestando il tempo e rinnovandosi di volta in volta, come un flash ci scuote dal torpore. Forse è ora di cambiare direzione. “Kiss è una temporalità queer che non trascorre verso nessun paradiso”, recita il manifesto del progetto.
Warhol dichiarava di lasciar la camera funzionare fino all’esaurimento della pellicola per poter guardare le persone come sono veramente: Kiss è una performance “girata” in piano-sequenza, che ci permette di osservare chi abbiamo di fronte ma anche noi stessi e le spettatrici e spettatori intorno.
Che cos’è un bacio?
Ilenia Caleo: «Per come lo abbiamo affrontato noi è tante cose insieme. Siamo partite da una questione specifica: il bacio come azione corporea. Dall’idea di due corpi che si toccano, da come i corpi si imprimono uno su l’altro. L’immagine che abbiamo usato è, infatti, proprio quella dell’im/pressione. Siamo partite dall’aspetto più corporeo, più materiale, dall’azione che si allontana dal bacio come costruzione romantica o come elemento psicologico di una relazione che sta dentro una narrazione. Poi è anche tante altre cose: un’intensità, una temperatura, un’intimità. Anche queste sono tutte questioni su cui abbiamo lavorato discostandole, appunto, dall’aspetto narrativo».
Nei crediti c’è scritto che questo è un lavoro che nasce da un desiderio di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, che cos’è questo desiderio?
Silvia Calderoni: «Nasce sicuramente da un desiderio ma, forse, è nato un po’ al contrario. Per quanto si prova a rovesciare i formati o a sperimentare sistemi altri, comunque, alla fine, si è costrette spesso a tornare a delle griglie predefinite, come produrre dei crediti, scrivere un testo descrittivo per il programma o scegliere delle immagini. Quando ci hanno chiesto i crediti del lavoro ci siamo interrogate su come definire il progetto. Al contrario in questo senso: nasce dalla necessità di avere una definizione. Non ci sentivamo di firmare la regia, perché non è il tipo di approccio che noi abbiamo al lavoro, prima di tutto perché partiamo entrambe da dentro la scena, né io né Ilenia siamo registe. E ci piaceva la possibilità di proporre e guidare un gruppo e un progetto ma mettendo a sapienza quello che conosciamo meglio, la pratica performativa. Non volevamo spostarci e sperimentare un’altra zona, anche in questo senso si può parlare di desiderio: tentare di capire se questa sapienza della scena si può mettere a sistema. Il desiderio è stato anche il motore che ci ha spinto a portare avanti il progetto. Essendo stato un lavoro diviso in diverse fasi – nato da IUAV e dalla Biennale di Venezia – a un certo punto ci siamo interrogate se portarlo avanti o meno. Non siamo partite con l’idea che avremmo fatto delle tappe e saremmo arrivate qui, ma è stato costruito tappa per tappa e a oggi non sappiamo ancora cosa diventerà».
Come avete lavorato con le performer e i performer?
I.C: «Abbiamo fatto tantissimo lavoro in sala, molto lavoro fisico e molta pratica sulla durata. Siamo un gruppo di 21 persone più due che hanno percorsi molto diversi: ci sono professionisti e professioniste che vengono dalla danza o da percorsi teatrali anche di ricerca; ma la maggior parte sono non professionisti, per lo più studenti e studentesse che hanno intorno ai 20 anni e sono alla prima esperienza della scena. Il lavoro più grande è stato quello di entrare in una pratica, qualcosa di molto difficile da trasmettere quando si fa ricerca, dato che non c’è una tecnica che si può insegnare. Si tratta di proporre un principio compositivo e insieme allenare la percezione al suo disfunzionamento, perché appena qualcosa funziona e diventa una regola o un’abitudine va scardinata. Questo per chi è alla prima esperienza può essere molto difficile e anche spaesante. Abbiamo deciso di non fare regia noi, perciò chiedevamo loro di non ripristinarla da dentro. Ad esempio, abbiamo dismesso l’idea di segnale: non c’erano mai impulsi da fuori ai quali loro rispondevano. Per me qui c’è un’indicazione politica: un segnale è un ordine che rimanda a un significato esterno, il segno è qualcosa che garantisce il senso del tutto. Lavorando in questa direzione abbiamo scelto una via molto radicale, quella di non mettere segni che chiamano, di togliere dio dalla scena come ordinamento. Abbiamo inventato delle “grammatiche” (questi sono i termini che usiamo noi), come un’idea di linguaggio che ha le sue regole, però può essere parlato e vi si possono comporre frasi. Poi ci sono delle “variabili” che i/le performer possono giocare e mettere in campo, e in questo caso serve un accordo o una costruzione fisica più organizzata. Ci sono anche degli “accadimenti”, che invece devono appunto accadere, ad esempio: che almeno una volta nell’arco di due ore ci sia un vuoto. Su tutto questo si è basata la pratica in sala attraverso esercizi, immersioni, sessioni di lavoro. La musica non è mai un segnale, anzi, spesso abbiamo dato indicazione di non lavorare a favore della musica ma su un tempo interno che segue un altro binario. Abbiamo visto più volte Kiss di Andy Warhol, che abbiamo usato anche come materiale di lavoro in sala, come riconversione del visivo in linguaggio parlato. Kiss è stata anche una presenza nelle sessioni di lavoro, e tutto quel nucleo di fusione e sperimentazione molto radicale che è stata la New York degli anni ’60».
E musicalmente invece?
S.C.: «Siamo partite dall’idea di usare i Velvet Underground, per una questione semplice: visto che il riferimento era al mondo di Warhol e volevamo ottenere una precisa bolla musicale, è stato naturale scegliere loro. All’inizio abbiamo selezionato un paio di album, però l’effetto playlist arrivava troppo e diventava immediatamente una colonna sonora. Musicalmente è molto facile in questo tipo di lavoro dare una direzione emotiva attraverso la musica, ma volevamo disinnescare proprio questo tipo di effetti e dunque abbiamo applicato alla musica gli stessi principi della scena: la ripetizione, la serigrafia, la cover. Alla fine sono rimasti quattro pezzi dei Velvet che vengono reiterati, coverizzati, tagliati, dilatati, nello stesso modo in cui le/i performer lavorano il bacio. Gli interventi musicali che vengono fatti internamente hanno lo stesso principio, come se fossero cover degli stessi brani messi in gioco, ad esempio quando Clara canta e suona in scena ha a disposizione dei pezzi e può scegliere quale eseguire, se ne propone uno che ancora non è stato usato innesca con me un lavoro sulla cover di quel pezzo, intervenendo sulla partitura musicale complessiva.
L’altro universo musicale che c’è dentro è Cosmesi. La scelta è stata fatta per un’affettività ma anche con l’idea di collegarci a qualcosa che succede nel Festival e coverizzare qualcosa che esiste fuori, in tempo reale».
I.C.: «Sì, la scelta di Cosmesi ha a che vedere con il riconoscimento del presente di una comunità artistica. E poi erano gli unici che stavano bene con i Velvet Underground! Forse è lo stesso livello di follia creativa…».
Personalmente assistendo alle aperture ho sentito lo scatenarsi di un desiderio difficilmente incanalabile, che cosa succede secondo voi lì, in quello spazio in cui scena e pubblico si incontrano?
I.C.: «Può venire voglia di baciarsi. Anche se non è stato il nostro punto di partenza, per noi in realtà questo desiderio che si genera apre a una dimensione politica del lavoro. A Venezia, dopo un po’ che la materia ha iniziato a prendere forma e intensità, ci è apparsa chiaramente la potenza anche politica, oltre che poetica, di corpi in sistemi di relazione e di prossimità, affettivamente carichi. È come il popolo che viene di cui parla Deleuze, popolo che invece non arriva perché in questi tempi di fascismo non ci sono le condizioni, ma che dobbiamo continuare a immaginare. C’è la tensione utopica di un’utopia queer, che è già qui e che è insediata nel presente, ma che in questo momento non è quella dominante. Un’altra tonalità di affetti».
S.C: «E invece è quella che contamina».
I.C.: «Non ha tanto a che fare con l’identità, non intendo il queer in questa accezione, ma come una possibile politica del contatto rispetto a quella che prevale oggi e che prevede invece una strategia, e un’economia del respingimento dei corpi. In Kiss è sperimentiamo un sistema in cui i corpi entrano in un’intimità che però non è privata. È la potenza della relazione, dell’intendersi, del parlarsi senza la lingua parlata. La materia della scena, data la fragilità del lavoro, è molto mobile, a volte ha dei livelli d’intensità che poi calano, e si percepisce questa mobilità e ci si trova immers* nella trasformazione. Il volerne fare esperienza, il rendere visibile qualcosa di invisibile che è in continua mutazione, è forse ciò che genera desiderio, desiderio di trasformazione pura e di apertura all’altr*. Ma questa è solo la mia percezione».
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