Cosmesi a Central Fies ha fatto un buco: Eva Geatti, Nicola Toffolini e Marcello Batelli hanno scavato nella terra, con altri, da soli, a suon di musica, dietro maschere pop che nascondevano a tratti il volto, in una performance di lunga durata, terminata in un buco nella terra (la tana del bianconiglio?) che li ha inghiottiti tutti e tre. Ultimo atto di un progetto che ha portato la compagnia a fare un disco, un live e un videoclip. Dietro questo fare che sembra essere la centralità di tutti questi atti/performance c’è la potenza e l’essenza del teatro. Azioni certamente performative e non rappresentative, che, però – come racconta Eva Geatti – partono dal voler realizzare un disco con un’attitudine mimetica. Se in quello che chiamiamo post-drammatico secondo la definizione di Lehman il patto tra attore e personaggio e quello della finzione scenica decadono e si trasformano, si può dire che in questo sfaccettato progetto di Cosmesi esplodono e sono portate all’ennesima potenza. Eva, Nicola e Marcello fanno un concerto, che abbiamo visto nell’ultima edizione di Santarcangelo Festival, suonano gli strumenti che non sanno suonare, e al contempo hanno composto canzoni che riascoltiamo: per chi scrive George Clooney è diventata la hit dell’estate. Nelle varie performance c’è uno spostamento continuo che apre e che mette in crisi anche l’essere spettatore, si sta con loro nel loro essere rockstar o ‘scavatori’ con la maschera di David Bowie, nel comprare un disco che esiste ma che non c’è, nell’accompagnarli di fronte alla fragilità e il baratro di cui mi parla Eva e, infine, nel riconoscere il teatro dentro un concerto pop/rock.
Cosmesi ha fatto un disco, un live e un videoclip, come nasce questo progetto?
«Il lavoro è nato ad Atene mentre eravamo ospiti di un festival con Periodo Nero.
Siamo andati in giro per locali e ci siamo ritrovati in un posto minuscolo con della musica bellissima dove dietro al bancone c’era una ragazza con le cuffie da dj che faceva i drink, gli scontrini e metteva la musica. Era come Shiva nel suo microcosmo e le persone nel locale avevano un’empatia incredibile nei suoi confronti. Abbiamo iniziato a riflettere sul fatto che tutti siamo continuamente declinati, ma chissà qual’era il suo lavoro e quali erano i suoi desideri. Ci è venuto in mente di fare un disco con un’attitudine mimesi: fare musica, fare finta di fare qualcosa e fare qualcosa che non sai fare (che poi è quello che succede ultimamente quando si cerca un lavoro). Su questa onda di pensiero è nato il disco pop e poi il live».
A Centrale Fies avete fatto un buco, che cosa è successo?
«Una volta partito il progetto siamo entrati nella bolla della band: fare finta di essere un gruppo musicale e andare in tournée. La cornice era solo apparentemente molto chiara, perché, poi, quando abbiamo suonato in club musicali come il Freak Out a Bologna o il Fanfulla a Roma, il pubblico era lì per ascoltare la musica e davanti a un progetto di questo tipo i piani entravano in confusione. Il live è uno spettacolo teatrale che è un concerto vero e proprio e gioca su tutto quello che è lo stare in scena delle rock star, ma non è dichiarato che è finto. Avevamo un estremo bisogno di riagganciarci al fare perché siamo una compagnia legata alla costruzione di oggetti della scena fin dai primi lavori…Recentemente riflettevo su questo proprio, un passato di spettacoli faticosi, fatti di macchine, costruzione e forza lavoro, realizzati totalmente in autonomia: cosa succede a tutto quel lavoro? La domanda su dove va a finire tutta la fatica fatta resta anche ora che quel tipo di lavoro lo abbiamo lasciato da parte. Quando siamo venuti a Centrale Fies in residenza per fare il videoclip abbiamo detto a Barbara (Boninsegna, n.d.r.) che volevamo fare un altro progetto, lei si preoccupava della mancanza di spazio ma noi le abbiamo detto che volevamo fare un buco. C’è un po’ tutto nella questione del buco: lo scavarsi la fossa, il gioco dei bambini, i becchini di Amleto, la terra è anche molto metal. Quando abbiamo fatto il buco mi ha un po’ innervosita l’aspettativa muscolare dell’azione, tutte quelle domande: come sarà il buco? quanto sarà grande? Quanto profondo?…Ma non era quello il punto, dovevamo scavare e farlo insieme alle altre persone. È una strana condizione questa, in cui Nicola (Toffolini n.d.r.) e Marcello (Batelli n.d.r.) sono in scena, ma non sono propriamente dei performer, che poi è la stessa condizione in cui Marcello si è trovato quando abbiamo fatto il disco, lui sapeva farlo noi no. Ecco, il buco lo sapevamo fare tutti e tre».
Con quali limiti vi siete scontrati nel costruire e decostruire un linguaggio specifico come quello della musica e delle pop star?
«Il limite principale è il non sapere fare. È una condizione strana quella di avere un’idea precisa di qualcosa che però non ti calza, come, ad esempio, voler cantare il ritornello di una canzone di Adele come lo fa lei ma con la tua voce non puoi. È un limite fisico ed è quello più esaltante perché si scontra con il corpo, con la realtà, il non allenamento, la non preparazione. L’altra cosa che per me è stata importante nel processo è il progredire senza imparare realmente, non c’è stato tempo, il disco è stato fatto in sette mesi da zero totale e nessuno di noi aveva mai usato neanche una chitarra. Perseguivamo un modello molto netto ed eravamo costantemente di fronte al superamento della questione, alla stessa stregua delle scimmie ammaestrate ci siamo ritrovati incastrati in una serie di ingranaggi, macchine e possibilità. In questo limite del corpo e del non saper fare c’è una forma del teatro, per me. Portiamo avanti qualcosa di veramente sfocato perché ognuno ha la propria idea di pop star. Nel momento in cui accade la performance, che non può essere provata, c’è un fortissimo blocco fisico che è quello dell’incapacità ma c’è anche la timidezza, la fragilità e il baratro».
È un progetto che funziona come una matrioska e gioca con diversi piani di realtà…
«È un progetto che ne contiene tanti: c’è un lavoro sulla scrittura, sull’editoria, sulla grafica. Ha una quantità di strati che non sappiamo nemmeno. Ad esempio, il vinile è una pubblicazione e la casa discografica è reale. Si può parlare di mimesi anche per il processo di produzione del vinile, nonostante sia tutto finto il vinile è vero perché deve esistere nella realtà».
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