Lo scorso settembre, presso la Palazzina Liberty Dario Fo e Franca Rame di Milano, Reverie ha realizzato una performance rivolta al pubblico. Un’azione legata a un progetto più ampio che, il 4 dicembre 2020, avrà un’ulteriore sorpresa. In questo dialogo Reverie racconta il suo percorso, le sue ispirazioni e gli ostacoli che ha affrontato.
La scultura The Sleeping Muse è l’esordio di un progetto giunto a un terzo passaggio: durante la scorsa quarantena hai chiesto alle persone di scrivere un loro sogno, che tu avresti interpretato cantando una volta usciti da quel letargo obbligato in cui eravamo. E così hai fatto. Come hai deciso di interpretare i sogni degli altri?
«Ogni due anni realizzo cinque calchi di parti del mio corpo. La mia ricerca, così come l’estetica che la guida, si basa sulla vita. Per questo motivo, quando ho avuto una visione della Musa dormiente di Brancusi, ho pensato di renderla umana, imperfetta, vita. Ho fatto un calco del mio volto inserendo un innesto di rosa che ho fuso insieme. Il bronzo dormiente ha generato a sua volta il nome della performance dello scorso settembre presso la Palazzina Liberty Dario Fo e Franca Rame. Ho sentito che quel palco, dedicato solo alla musica che si fa poesia, poteva essere lo spazio di un nuovo Sogno. Ogni mia performance nasce da testi di diversa tipologia, sviluppati dalla prima intuizione. Solo questa volta, invece, l’opera fisica ha dato vita al momento intangibile col pubblico, rendendo fondamentali i loro scritti su qualsiasi memoria onirica, che ciascuno poteva scrivere, anche in forma anonima, su un format creato sul mio sito lo scorso gennaio dal titolo “coro di sogni”. Le schede venivano direttamente salvate in backup e stampate solo al momento della performance.
Non ho mai deciso come muovermi, cantare, agire. Mi sono mossa, ho cantato e agito come naturalmente ho sentito di fare in quel momento. Il 12 settembre scorso non ero da sola su quel palco: ero un coro di persone e, allo stesso tempo, un direttore d’orchestra. Ero uno specchio comune. I brani non erano altro che le verità del nostro tempo: dalle paure ai ricordi, fino agli enigmi e ai dubbi del difficile lockdown trascorso».
Nel tuo lavoro la centralità del corpo è fondamentale. Da quando hai iniziato a interagire con l’arte attraverso il fisico?
«Corpo fisico, corpo unico, corpo plurale. Ho capito che ogni cosa è corpo. Da Arte a Tempo, dalla parola alla voce, dalla testa allo stomaco, dalla sensibilità alla paura fino alla libertà: sono unità autonome dotate di proprie gambe. Mi sono cresciuta da sola imparando ad ascoltare ogni corpo con cui entravo in contatto. Prima di tutto il mio: ho appreso che il fuoco brucia perché l’ho toccato; ho imparato che il branco schiaccia e annienta la diversità quando ho dovuto lottare per non morire alla fine di cinque anni di bullismo al liceo. Ho conosciuto la mia essenza di donna dopo aver sentito sanguinare il mio sé e sofferto per abusi sessuali di corpi maschili. Ho accettato la mia fragilità, il mio nodo in gola, il mio intestino permeabile. Ma il corpo non è mai bastato.
Ho conosciuto Arte attraverso la stessa tipologia di apprendimento: muovendomi libera sin da piccolissima in spazi privilegiati, da musei a gallerie, e relazionandomi con anime privilegiate, artisti, scrittori, pensatori, uomini del tempo presente.
L’ho fatto senza limiti ed è stato il principale motore della mia vita. Dialogare con altri artisti, far parte dei loro lavori e performance, bere il sangue dell’Azionismo viennese ed essere crocifissa per Hermann Nitsch, lasciare una nuda traccia sotto il velo di Vanessa Beecroft, apprendere nel silenzio il metodo dell’Abramovic direttamente dal suo MAI e, in generale, questo prestarsi per altri: nessuna delle esperienze vissute è definibile con fatica, dolore, sofferenza, ma ha rappresentato un importante momento di formazione, uno studio diretto per una Reverie appena maggiorenne.
Oggi mi ritrovo in un preciso baricentro: la perla della conchiglia. La sua metafora è la mia essenza. I cicli di lavoro per me sono come quelli fisici: opera è operare, realizzare è partorire, empatia è maieutica. Il procedere verso una nuova opera è lasciare aperta la propria ferita a un corpo estraneo, cominciare a coprirlo di madreperla – come un’ostrica – per raggiungere una personale estetica che la sublimi e rappresenti a pieno. Questa la bilancia tra la mia poetica del quotidiano, quello che le persone possono vedere nella brutalità concreta delle mie storie di Instagram, fino al racconto di nuove opere che nascono già con una loro identità.
Quando parlo di ferita mi riferisco alla possibilità che un granello possa, solo se nel suo profondo significato è vero, diventare opera universale. Anche i sogni hanno un corpo infatti le mie grandi fotografie in bianco e nero modificate a mano le chiamo “sogni fisici” e sono senza tempo, senza luogo. Forse questa è l’eternità».
Le opere come tracce delle performance: cosa rappresentano le serie di ceramiche e bronzi che hai realizzato? E le Clessidre senza tempo?
«Non tutto ciò che costruisco per le performance diventa opera. Non tutte le opere che realizzo sono frutto di performance. Il mio metodo si sviluppa in un circuito ad anello: scrittura, idea, costruzione di ogni elemento per la nuova performance, condivisione col pubblico dell’azione come un momento di vita vera, sintesi in opere fisiche.
Solitamente poi i cicli, i nuclei tematici, si esauriscono con la stampa di un libro d’artista, a volte da collezione, altre di più ampia diffusione come il recente librosogni pubblicato da Skira. Per me i lavori sono unici, non riproducibili, a volte non compiuti.
Quando mi sono chiesta “di cosa sono fatti i sogni” ho trovato nella ceramica la risposta per realizzare gli “oggetti da sogno”: elementi che ho sognato e deciso di portare alla luce; alcuni rappresentano degli uteri in smeraldo, degli uroboro notturni, dei lacrimatoi; i bronzi sono vari e diversi: a volte si tratta di fusioni a cera persa necessari per nuove opere e installazioni altre volte di opere nate nel bronzo come la mia Musa dormiente. Le Clessidre senza tempo sono clessidre apparentemente impossibili specchio di una mia visione del Tempo. Queste ultime nascono nella forma da un mio disegno, forse femminile e ancestrale, che ritorna in altri lavori e sono tutti pezzi unici: diverso è il contenuto come la quantità di sabbia che scandisce il non tempo, come i quattro elementi rappresentati, aria, acqua, cenere e la terra di Ceoli».
Il 4 dicembre coro di sogni avrà un esordio importante. Cosa accade?
«Ho lottato per Sogno 2: The Sleeping Muse. L’ho sentito non solo come un bisogno corale, ma come un necessario grido d’aiuto che, nel silenzio, stava generando echi che non potevano più essere ignorati.
L’attualità del lavoro sta in questo: captare sensibilmente un tema-radice che porti a realizzare un’opera attuale e che resti contemporanea. Siamo esseri umani feriti e questa fragilità, messa a dura prova dalla cecità dell’attuale Tempo virale, ci ha trascinati in una profonda difficoltà.
In quattro ore e mezza ho cantato 146 sogni. Ciascuno di questi è diventato un brano che è stato raccolto in un album musicale reperibile solo online dal titolo coro di sogni, in uscita il 4 dicembre. Dall’inizio volevo che fossero liberi di circolare, ascoltati da tutti. Se questo “Sogno” collettivo è nato da una scultura, è con l’intangibilità della voce che può andare avanti attraversando nuove vite. A chiusura di questo intenso lavoro ci sarà poi un disco, in edizione limitata, che avrà anche una sua forma fisica. Una sintesi personale del materiale raccolto. Ma, per il momento, sogni d’oro: backl.ink.
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