05 maggio 2023

Fontana Project: Tagli nella dimensione del tempo, al teatro Vascello di Roma

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Al Teatro Vascello di Roma, Emiliano Pellisari e Mariana Porceddu portano in scena Fontana Project, spettacolo che fonde i linguaggi del corpo e della musica, per svelare una nuova dimensione degli iconici Tagli

Non è balletto, non è physical theatre, non è danza. Fontana Project, andato in scena al teatro Vascello di Roma fino al 30 aprile, è i tagli di Lucio Fontana “no gravity”, senza gravità. Fontana lavora in uno spazio che è quello della geometria euclidea. In Fontana Project, ai tagli viene aggiunta la quarta dimensione einsteiniana: il tempo. Emiliano Pellisari, coreografo e regista, fondatore della compagnia, lo fa grazie al movimento della ballerina Mariana Porceddu, l’altra metà di Nogravity. Lo spettacolo in scena al Vascello di Roma è potente, onirico, psichedelico.

Mentre Michelangelo tirava fuori l’opera dalla pietra, la liberava, portandola allo spettatore, e Fontana dà allo spettatore l’opportunità di crearsi il suo spazio attraversando quei varchi che gli consentono di andare oltre, Pellisari porta in scena l’illusione di poter spaziare dentro e fuori come un’onda dal mare, in un eterno fluire di pieni e di vuoti, di nascite e morti che frammentano l’eternità della vita.

Pellisari vela, svela, ri-vela nuovamente la figura umana, al ritmo di una musica a tratti piatta, ipnotica, a volte allucinogena: una sorta di manifestazione dell’inconscio che si esprime attraverso il colore, il suono e il movimento. Quei tagli materici delle opere del padre dello spazialismo, che rende scultura la pittura, prendono vita “quali per vetri trasparenti e tersi” che moltiplicano la realtà. Perché grazie al gigantesco specchio inclinato che altera la percezione, “ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere il prodigio di una cosa sola”.

Marianna Porceddu danza schiacciata sul pavimento, vestita dei veli della tela tagliata di Fontana, nei quali si immerge, riemerge, si avvolge come una crisalide, appesa come una trapezista nel vuoto di uno spazio senza gravità, danzando con il suo doppio. Tutto ciò grazie alla sapiente costruzione scenica di Pellisari che, come le antiche Tessalie, usa il suo speculum come ponte tra realtà e fantasia, gioca con le immagini speculari, ci restituisce il mondo degli opposti, ci fa entrare e uscire dallo specchio come Lewis Carroll con Alice.

Ma uno specchio, per vivere, ha bisogno di luce. Per Pellisari il colore, la luce e la materia non sono dei dettagli: «Ho modificato personalmente le luci per riuscire a creare gli effetti che desideravo, per far emergere la bellezza della linea bianca, della linea rossa, della linea blu, con lo scopo di animare la superficie della materia», spiega.

L’opera d’arte, anche quando racconta il movimento come le sculture di Boccioni amate da Pellisari, è comunque ferma nello spazio. Pellisari decide invece di far muovere l’opera.

«Nell’arte pittorica e scultorea – ci spiega Emiliano – il movimento è dello spirito, nel movimento che nasce dentro di noi. La forma dà a noi la possibilità di intuire questo movimento, ma non è mai la realtà. Già il barocco, con l’idea dell’ellisse, dà l’idea del movimento; come il futurismo che, quando ha cercato il movimento, ha creato delle dinamiche legate al moto curvilineo. Quando Fontana ha voluto parlare di dinamiche del movimento della materia, e ha creato i famosi tagli, ha parlato di un tempo che è dentro il taglio stesso: tanto è vero che le ha chiamate “Attese”. Fontana stesso diceva che il tempo è dentro quel taglio in quanto intuisci che c’è stata un’operazione, ma è sempre un’astrazione mentale. Il passaggio successivo è la performance, l’unico modo in cui puoi lavorare sul tempo».

Se penso alla danza, mi vengono in mente i Neon di Fontana, più che i tagli: nastri di luce che fluttuano nello spazio, come una foto in movimento scattata con esposizione lunga per ottenere le scie di luce. Nel manifesto dello spazialismo del 1948 Fontana scrive: “vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro”. La performance di Nogravity porta tutto ciò dal concettuale al reale?

«Sicuramente sì, perché la danza con la sua fisicità straordinaria è estremamente reale. Fontana Project è un viaggio psichedelico, dove vedi forme in continuo mutamento. Una danza che si trasforma in scultura, in architettura dei corpi».

Nogravity ha performato al Museo d’Arte Contemporanea di Roma come in programmi di intrattenimento tipo Italia’s got talent, Tu si que vales, Amici. Universi diversi richiedono una grammatica diversa?

«Sono lavori diversi perché io sono un totale schizofrenico. Tanti artisti di arte contemporanea hanno fatto le marchette. Mondrian faceva meravigliosi cuscini per il Bauhaus.

Il problema è storico. Prima dell’invenzione della stampa, una persona quanto poteva essere curiosa per leggere tre righe scolpite su una pietra? Tanto. Poi inventano la stampa e la curiosità cambia nel momento in cui gli esseri umani hanno a disposizione migliaia di libri. Una nobile del Settecento può essere meno curiosa di andare a teatro rispetto a una donna greca che aveva solo quello. Quando arriva la televisione, e la conoscenza confluisce lì, hai meno attrazione per il teatro o per il cinema. Oggi con i social anche il desiderio di andare al cinema si è abbassato ai minimi storici».

Quindi è un processo inflattivo?

«C’è una grande inflazione di conoscenza. Non si distingue più la cultura alta dalla bassa. C’è un enorme democratizzazione della cultura e in questo momento è un danno devastante. Mi auguro che in futuro si torni ad avere un minimo di selezione. Ora è davvero difficile arrivare ai giovani. Poi, per fortuna, mi capita di incontrare a teatro giovani veramente interessati all’arte, ma perché è un loro talento».

Performate spesso in Cina. Molti considerano la Cina un Paese pop, arricchito. Tendiamo a sentirci superiori, sempre con un atteggiamento “europacentrico”. Che pubblico avete incontrato?

«In questi ultimi dieci anni ho lavorato al Teatro Nazionale di Pechino, all’Opera lirica di Shanghai, alla filarmonica di Shanghai e in molti altri teatri. Vorrei comunque salvare la figura dell’occidentale: gli esseri umani sono tutti razzisti e fascisti. Ogni cultura è razzista. In tutte le lingue, soprattutto le più antiche, la parola uomo significa cittadino o elemento del popolo: tutti gli altri sono barbari. Anche per i cinesi noi siamo dei barbari. I giapponesi considerano barbari tutti gli altri. Da questo punto di vista siamo tutti uguali. Una grande differenza tra il pubblico cinese il pubblico europeo, soprattutto italiano, è che il pubblico cinese è ancora molto attratto dal teatro. L’altra è che non applaudono. Fanno solo una marea di fotografie con i cellulari e dal numero di foto tu capisci se il tuo spettacolo è stato apprezzato o meno. Al teatro nazionale di Pechino, 5000 posti, sold out per tre giorni, hanno fatto solo una marea di foto. All’inizio non capisci e ti preoccupi».

Il pubblico che segue la danza ha un’età elevata ed è soprattutto femminile. Eppure i giovani amano il ballo…

«Confermo. Una volta non era così. Il problema è creare luoghi dove venga coltivata l’arte e la cultura. Ad esempio a Siena, dove c’è il mio amico Alessandro Benvenuti, noi facciamo sold out per tre giorni di seguito. Questo è possibile perché Alessandro coltiva il suo pubblico e loro si fidano delle sue scelte artistiche. Purtroppo questo non accade più. I giovani non vanno più in teatro a vedere spettacoli di danza perché basta loro TikTok. Oggi la maggior parte dei teatri sono generalisti. Hai i personaggi televisivi, i cabarettisti. Se in mezzo a tutto questo metti un balletto, lo uccidi. All’estero è diverso. A gennaio del 2024 saremo in tournée negli Stati Uniti, a maggio di quest’anno abbiamo un contratto di un mese a Parigi, torneremo in Cina. Ma sono realtà dove si cerca di mantenere alta la qualità, dove vai in teatro per vedere un mondo lontano dalla televisione, quello che non trovi sui social o sulle piattaforme».

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