Only art can break your heart
Only kitsch can make you rich
Una targa campeggia sul grande portone metallico. Nel cuore di Seefhoek, quartiere operaio, c’è la sede di Troubleyn / Laboratorium, sede operativa di Jan Fabre, il controverso regista e artista di fama mondiale che in questa zona di Anversa è cresciuto. In occasione di una prova aperta della sua masterclass, quel portone metallico si apre per una manciata di giornalisti. Nella cucina disegnata da Marina Abramovich, Miet Martens – braccio destro di Fabre da oltre 30 anni – ci racconta la storia dell’edificio, uno spazio del Comune in comodato alla compagnia, che raccoglie oltre 70 opere di artisti internazionali, come Robert Wilson, MASBEDO, Luc Tuymans.
Il tempo di un panino e una zuppa calda e si scende a teatro, dove Jan Fabre è già seduto alla sua scrivania in fondo alla sala. Immancabile la sigaretta alla mano, con la testa chinata sugli appunti. Solo una volta seduti viene a presentarsi, solo il nome e una vigorosa stretta di mano per poi dare il via ai lavori. Sul palco 20 performer: nove donne e 11 uomini, provenienti da tutta Europa, superando una rigida selezione per passare due settimane intensive con il maestro belga, magari con la speranza di essere notati e selezionati per il suo prossimo lavoro. Tra loro diversi italiani, come Matteo Franco, attore e coordinatore della collana Drama di Franco Angeli – diretta da Fabrizio Gifuni -, e che ha appena pubblicato il volume; o Giulio Santolini, performer che in Italia collabora con compagnie come Sotterraneo – appena vincitori dell’Ubu per il miglior spettacolo 2022 – alla sua terza presenza alle masterclass di Jan Fabre.
La prima parte del pomeriggio è dedicata alla lettura di alcune azioni, per capirle, approfondirle, guidati da Pietro Quadrino, sotto il vigile sguardo di Fabre che alterna sigaretta e appunti. Poi inizia il riscaldamento con l’esercizio Carta di riso/ Fuoco, che poi si trasforma in gatto, tigre, lucertola…seguendo alla lettera il metodo ben descritto nel libro appena pubblicato, “Dall’azione alla recitazione. Linee guida di Jan Fabre per il performer del XXI secolo” (342 pagine, Franco Angeli, 2023).
Dopo quasi tre ore ininterrotte, durante una pausa di pochi minuti, alcuni performer raccontano quanto sia stimolante la ripetizione del gesto per «Per ritrovare la giusta dimensione della propria professione e del proprio ruolo». La ripetizione del gesto per la ricerca alla ricerca verità scenica è una delle caratteristiche della messa in scena di Fabre ed è proprio in questa ripetizione fino allo sfinimento che i performer possono lasciarsi veramente andare, perdendo al maschera e liberando il loro vero stato d’animo, la loro stanchezza li libera dalla corazza, mettendo in scena il loro io, ricordando quindi di non essere solo pupazzi nelle mani del teatro, ma individui con sentimenti da condividere.
Ma questo è solo il riscaldamento. La seconda parte del pomeriggio è dedicata alla ripetizione di un solo esercizio, ripetuto fino allo sfinimento fisico e mentale. L’esercizio è “l’incisione”, ovvero gli uomini in fila sul fondo del palco tengono in mano delle spade, in attesa di un segnale dalle dame, distribuite nello spazio. Come si legge nel manuale: «Le donne sviluppano lentamente il desiderio del coltello/spada degli uomini. Il coltello che vogliono, che bramano, che anelano, è ciò che desiderano. È la vergine che vuole essere squarciata per sanguinare. Peer farlo invita l’uomo che sta dietro di lei. Tira su una manica e mette a nudo l’interno di un braccio […] è fondamentalmente un sacrificio. Le vergini sacrificano il loro sangue come negli antichi riti di fertilità […] Le vergini desiderano l’estasi di questo sacrificio, il momento estatico di essere squarciate, dispargere sangue» (p.185).
Il sangue è centrale in questo esercizio, l’elemento di “incredibile valore simbolico”, che unisce amore e violenza in un unico gesto. Ma quello che colpisce, in questo pomeriggio di masterclass, è la scelta di questo esercizio tra i 38 possibili. Fabre sembra sfidare lo sguardo dei giornalisti presenti. Non si tratta più del gioco del sadico voyerismo che, con l’avanzare del lavoro, diventa trasposizione della sofferenza dall’attore all’osservatore. Qui il regista si mette a nudo nello stesso modo in cui ai propri performer chiede di abbassare la maschera, mostrando quello che avviene nei retroscena del suo teatro.
Raccontare quello che si è visto vuol dire descrivere quello che inizialmente è un gesto sessuale, un’offerta di corpo seducente ma che si trasforma, alla fine dell’esercizio, nell’offerta di un corpo morente, che perde la sua sensualità mostrando la carne e le sue debolezze.
Si vedono corpi, sudati e umani: gli attori sottostanno al gioco e mostrano le loro fragilità grazie alla violenza del gesto della ripetizione. Per Fabre il teatro ha il potere di mostrare la verità, che può essere più reale del reale, solo se si sa come raggiungerla. La responsabilità poi ricade su chi guarda, che vede solo ciò che vuole capire, senza comprendere le complessità, le sfumature e le maschere dell’uomo.
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