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Il ruolo politico dei margini: a Roma una mostra per celebrarli
Arti performative
A metterle in moto insieme ad Azienda SpecialePalaexpo è SPAZIOGRIOT, piattaforma curatoriale indipendente —estensione fisica della rivista online GRIOTmag— fondata dalla curatrice Johanne Affricot (parte del collettivo GRIOT insieme a Celine Angbeletchy, in arte Ehua, ed Eric Otieno Sumba), da sempre impegnata ad amplificare le voci marginalizzate nel panorama artistico e culturale italiano e internazionale. Il programma svoltosi grazie al supporto del British Council e alla collaborazione con l’American Academy in Rome, Fondazione Polo del ‘900 ed EXP, fino al 30 luglio, ha dedicato un percorso multidisciplinare articolato in un intenso public program di workshop, incontri, listening session e performance, intorno alla prima personale del regista e artista Liryc Dela Cruz, Il Mio Filippino. For Those Who Care To See.
Artistз, coreografe, e performer, tra cui Madre Lasseindra Ninja, leggendaria pioniera del voguing in Europa, borsista a Villa Medici, Girolamo Lucania, Alberto Boubakar Malanchino, autori e registi, Valerie Tameu, performer e coreografa, hanno ridiscusso il potere egemonico della whiteness nella costellazione dello scenario italiano contemporaneo, con una prospettiva intersezionale. Liryc Dela Cruz, nato nelle Filippine nella regione di Mindanao, attivo in ambito cinematografico, visuale e performativo, ha lavorato come assistente in alcuni film di Lav Diaz per poi trasferirsi in Italia dove ha intrapreso un percorso personale di ricerca che interroga la questione coloniale delle Filippine, il lavoro di cura e le forme invisibilizzate della diaspora filippina contemporanea. L’artista, nella performance e nel percorso espositivo che lo vede protagonista, mostra le ombre di una migrazione e di una comunità presente in Italia da quasi mezzo secolo, la cui presenza, seppur cospicua – è la comunità di origine straniera per estensione numerica, è ancora fortemente isolata dai processi di riconoscimento sociale e chiusa nella cortina di un silenzio domestico, connesso alle condizioni del lavoro che storicamente la connota.
Dela Cruz, attraverso i colori di un’oscurità tropicale, guarda alle linee grigie dell’invisibilità delle schiavitù contemporanee, indagando la condizione esausta dei corpi di care-giver, di collaboratrici e collaboratori domestici, presenti in scena in qualità di performer. Con loro ha lavorato in un percorso pluriennale, che lo ha visto in residenza al Mattatoio di Roma, grazie alla collaborazione con il Master in Performing Arts (Roma3- Palaexpo), con cui ha avuto genesi il progetto. L’apparato di controllo sui corpi, la sorveglianza, e insieme il sonno come stato di caduta, di collasso delle forze e insieme come luogo di rigenerazione onirica e simbolica, sono gli elementi di cui si costituisce l’esposizione, in un’atmosfera opaca, tropicale, dove nulla si dà se non nella penombra malarica, sospesa, sognante di un orizzonte futuro non ancora concesso.
Il dispositivo è insieme appendice ed estensione della performance Il Mio Filippino, atto unico in tre quadri, dove attraverso una coreografia di movimenti nitida, i performer riproducono i gesti della cura domestica, con forme robotiche e ritmi meccanici, sino allo stremo, seguendo un processo di esaurimento fisico dei corpi. In una luce rossa e densa, si muovono intorno alla centralità di un mucchio di terra, tumulo, tophet, insieme casa, al cui centro è posta un kulambo, sorta di zanzariera tradizionale, evocazione di un’altra terra, di un arcipelago abbandonato che ora è solo memoria, ricordo, e insieme prospettiva della fine. In questa danza dei tre protagonisti, Benjamin Vasquez Barcellano Jr, Sheryl Palbacal Aluane, Jenny Guno Llanto, si apre attraverso la maestria del montaggio di Dela Cruz, la proiezione degli scenari di una storia coloniale plurisecolare, che si consuma dalla dominazione spagnola a oggi, in una costellazione di note e appunti che il regista puntella: la cultura indigena, i quaderni dell’esploratore italiano Antonio Pigafetta, le successive colonizzazioni giapponese e americana, le schiavitù contemporanee, la violenza e la dimensione di una diaspora che coinvolge il pianeta, e che vede nella biografia di Dela Cruz un’importante eco.