Si è conclusa il 25 agosto la quinta edizione del Ginesio Fest. Tanti gli spettacoli e gli artisti presenti. Ma il Ginesio Fest è stato anche altro: un seme importante nel progetto di trasformazione e di rinascita di un teatro sempre più asfittico se lasciato in mano a chi vede i teatri, soprattutto pubblici e stabili, come una poltrona da occupare. Magari mentre dicono che con la cultura non si mangia.
L’esperimento, fortemente voluto dal direttore artistico del GinesioFest, Leonardo Lidi, ha visto lavorare insieme gli allievi del terzo anno della scuola del Teatro Stabile di Torino, diretta dallo stesso Lidi, e del Piccolo Teatro di Milano. Lontani da quella mentalità che chiude i ragazzi di ogni accademia nel proprio castello, questi allievi stanno imparando l’importanza del fare rete, dell’arricchirsi reciprocamente, in un mondo che sta scoprendo come la corsa solitaria verso il successo renda semplicemente soli, e come la rete di Indra della collaborazione arricchisca e crei opportunità di sinergie, anche future. È così che il GinesioFest è diventato un’occasione per mettere le nuove generazioni al centro di un pensiero politico, lavorativo e professionale.
«Passare la palla e non tenerla sempre per noi»: così Leonardo Lidi ha sintetizzato l’anima del lavoro che lo vede in squadra con Alessio Maria Romano, Leone d’Argento al Festival di Teatro di Venezia nel 2020, docente di training fisico e movimento scenico presso la scuola del Piccolo Teatro di Milano di cui è anche coordinatore didattico.
«Unire i mondi della formazione – dice Alessio Maria Romano – è un modo di lavorare sul quale bisognerebbe investire di più. Lavorare su una crescita comune di ragazzi che hanno percorsi diversi, nonostante siano tutti allievi di scuole dette genericamente “per attori».
Come hanno reagito gli allievi delle due scuole all’esperimento?
«All’inizio si osservavano, poi è stato bellissimo vedere come si siano contaminati reciprocamente di esperienze, di condivisioni. Un percorso intensivo dove il corpo è stato il tema principale, con i ragazzi del Piccolo abituati al mio modo di lavorare e quelli dello Stabile di Torino che si sono trovati all’improvviso in una lavatrice, immersi dentro musica e movimento».
Dopo il diploma con Luca Ronconi alla Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, sei rimasto con lui come collaboratore. Come ti sei distaccato da Ronconi?
«Per molti di noi è stato difficile uscire dal quella strada. Quello che cerchiamo di fare, con Leonardo, e con Carmelo Rifici al Piccolo, è quello di creare attori liberi, autonomi e responsabili in un mondo teatrale molto più complesso che in passato e molto meno definito.
Ai tempi del teatro di Ronconi, di Avogadro, eravamo tutti innamorati dei nostri maestri, ma io stavo male in scena. Ronconi, nonostante avesse un grosso problema col corpo, ti guidava passo passo. Ecco perché lascio che i ragazzi capiscano come lavorare da soli sul corpo, senza che il/la regista diano la consegna esatta. Noi eravamo abituati a eseguire come dei robot, ma Luca non aveva le parole giuste per raccontare il corpo, nonostante il suo corpo in scena si muovesse magnificamente. Fu lui che mi insegnò a percepire il corpo nello spazio, dove posizionarlo nel disegno totale della tavola scenica. E fu lui a capire che io avevo un problema proprio col corpo, che il mio corpo era più veloce del mio pensiero».
Quanto lavoro c’è dietro all’apparente improvvisazione della restituzioni dei tuoi allievi al GinesioFest?
«Tanto. È una libertà finta. Facciamo quello che vogliamo all’interno di determinate griglie, che esistono, con l’obbiettivo di pensare meno “sono io” e arrivare al “siamo noi”. Il teatro si fa in gruppo, dove il gruppo può essere anche solo il tuo tecnico, ma c’è una comunità. Spetta ai ragazzi capire e rielaborare. È un lavoro che viene dalla danza contemporanea, da Trisha Brown e da tutto quel mondo dove ho studiato danza, dove mi sono formato e che è un mio riferimento importante dal punto di vista teorico e tecnico. Con gli anni ho capito che dovevo distrarre gli attori dal ricordarsi di essere attori e attrici. Nella restituzione degli allievi al GinesioFest, c’era una comunità all’interno della quale ognuno è stato libero di improvvisare. Il balletto ha regole rigidissime, invece qui la danza l’abbiamo usata per mettersi nella condizione di essere diversi corpi che si muovono all’unisono. Il racconto della performance che avete visto al GinesioFest si basava sul fatto che siamo soli, siamo singoli, ma siamo anche insieme».
Le nuove generazioni sono più libere nel corpo?
«Assolutamente no, anzi. Mi sono accorto che, dopo la pandemia in particolare, bisogna ritornare a prendere confidenza col proprio corpo, ad avere più amore, rispetto, cura. E anche più scenicità, chiamiamola così.
Una volta agli attori veniva chiesto di essere espressivi fisicamente. Si puntava sul talento e si facevano ore di training. Ma cos’è oggi il training? Non posso fare più il training degli anni ‘70 alla scuola del Piccolo, perché quella è già una poetica. Loro sono differenti. Io ho sentito il bisogno prima di tutto di dire loro che cos’è una mano, cos’è un piede, come si salta; partire dal respiro, dalla preparazione del corpo, come nella danza, per poi essere più espressivi. L’attore di oggi, in Europa, balla. Ma che vuol dire ballare? Si muove, è libero, non ha orrore del proprio corpo in scena. Ecco perché ho deciso di lavorare sul corpo distraendo i ragazzi.
In Italia si è molto legati alle definizioni: coreografo, attore, teatro, danza, performance. Al di là delle definizioni, credo che l’attore di oggi, europeo, mondiale, debba essere stimolato a scuola a comprendere che c’è una pluralità di possibilità che può affrontare.
Ho lavorato per spettacoli dove l’attore non si muoveva, ma quell’immobilità era un lavoro sulla presenza, sulla consapevolezza dello spazio proprio e degli altri, difficile da comprendere per lo spettatore. Negli anni ‘70, l’allenamento era parte di un’idea di teatro, tutti si allenavano. Oggi ogni attore si riscalda secondo le sue pratiche e l’individualità è diventata la prassi. Rappresenta la solitudine, che è anche il tema del GinesioFest e che caratterizza il nostro momento storico».
Antonio Latella, nella motivazione del Leone d’Argento, ha definito il tuo ruolo “ombra fra pedagogia e regia”. Sei un movimentista. Che mestiere è?
«Ronconi, quando mi presentava alla compagnia, diceva “ecco quello che fa le mosse”.
Movimentista indica qualcuno che deve conoscere a fondo la lingua del teatro, il codice del corpo in scena, che non è un corpo che danza. Siamo su una linea di confine tra danza e prosa. Il movimentista è l’uomo che sta nell’ombra. Il suo lavoro non si deve vedere, deve aiutare gli attori senza sovrapporsi al regista. Spesso Ronconi se ne andava lasciandomi intere scene da gestire. Poi tornava e le riorganizzava. Il movimentista è un paradosso, è un’ombra e insieme un ruolo forte. Quando si presenta un problema di comunicazione con l’attore, spesso il regista chiede al movimentista di mediare.
Una volta ci si aspettava che gli allievi fossero espressivi senza un lavoro sul corpo; si sfruttava il loro talento e l’attitudine, senza una riflessione sulla postura, sulle abitudini meccaniche, sulla storia del loro corpo.
Prima di essere artisti, gli attori sono corpi con una storia personale che va ascoltata, capita, e tutto ciò richiede tempo e fatica. Ogni attore ha una storia emotiva, e spesso il processo di lavoro sul movimento corrisponde quasi a un percorso psicanalitico. Il corpo è un territorio conflittuale, dove possono emergere grandi fragilità; è una casa piena di spettri, ma anche di tesori; un luogo pericoloso, dove si deve entrare con cautela e devi sapere qual è il limite da non superare.
Quando Ronconi chiedeva “Perché non lo fanno come lo fai tu?”, rispondevo che ciascuno ha il suo corpo, i suoi tempi; che il corpo non è un costume che indossi all’occorrenza.
Quando Ronconi mi chiese di far muovere gli attori come veri pompieri in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, sono andato alla caserma di Torino e ho imparato dai vigili del fuoco. Il movimentista è un formatore. Deve saper parlare agli attori, saper sintetizzare, trovare soluzioni in poco tempo. Quindi deve studiare continuamente. La mia formazione spazia dalla pittura al cinema, dall’antropologia alla psicoanalisi.
Ma anche stare sul palco. Spesso, quando cerco produzioni, mi dicono “ma tu insegni, non ti basta?” Non potrei insegnare e basta. Io ho timore di un’insegnante che non ha più di un’accademia, che non ha non ha più nessun collegamento col palcoscenico, perché anche la materia più tecnica possibile la devi rapportare con il reale dello spazio scenico, dove cambia tutto rispetto alla teoria e alla tecnica che tu decidi di attuare».
Carmine e Celestina sono due "scugnizzi" che si imbarcano su una nave per l'America. La recensione del nuovo (e particolarmente…
Il collezionista Francesco Galvagno ci racconta come nasce e si sviluppa una raccolta d’arte, a margine di un’ampia mostra di…
La Galleria Alberta Pane, 193 Gallery, Spazio Penini e Galleria 10 & zero uno sono quattro delle voci che animano…
Si intitola “Lee and LEE” e avrà luogo a gennaio in New Bond Street, negli spazi londinesi della casa d’aste.…
Un'artista tanto delicata nei modi, quanto sicura del proprio modo d'intendere la pittura. Floss arriva a Genova in tutte le…
10 Corso Como continua il suo focus sui creativi dell'arte, del design e della moda con "Andrea Branzi. Civilizations without…