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La performance torna viva: l’ultimo atto di The Momentary Now
Arti performative
È successo un evento pochi giorni fa nel piccolo Giardino dietro la Casa degli Artisti di Milano, intitolato a Pippa Bacca. È successo che in una città provata dal lockdown, dove le mascherine si tengono ancora su naso e bocca, si siano svolte una dozzina di performance dal vivo, per una durata totale di circa un’ora e mezzo!
In barba a chi ci voleva stecchiti davanti a uno schermo a vedere l’arte “live” via zoom o youtube per abituarci ad aver paura dell’altro, del contatto, della natura, della vita, “The Momentary Now” la scuola di performance ideata dall’artista Marcella Vanzo con il supporto dell’Associazione di Teatro Sperimentale ZONA K è scesa “in pubblico” per mostrare i risultati di sei mesi di corso, anche davanti a nonne che spingevano piccoli sulle altalene e anziani seduti sulle panchine a prendere un po’ di fresco in un afoso pomeriggio di inizio estate milanese.
I progetti di The Momentary Now
Dodici studenti di età compresa tra i 25 e i 50 anni circa hanno presentato le loro produzioni, con un solo momento di prove antecedente al debutto. Perché ovviamente da febbraio a oggi “The Momentary Now” ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di esistere sul palco di ZONA K, ma si è dovuta reinventare online, con una serie di lezioni – tenute tra gli altri anche da Pietro Gaglianò e Cesare Pietroiusti – e di pratica da fare rigorosamente a casa.
Quanto ha influito questa condizione fisica, ma viene da dire anche storica e sociale, sulla presentazione finale, e sulle idee performative degli artisti-studenti? Tanto, tantissimo.
E il risultato è stato fortissimo.
Una liberazione, una catarsi vera e propria, un applauso finale e la felicità, finalmente, di respirare e di partecipare di corpi in affanno, arrabbiati, romantici, riflessivi, o assurdi come assurdo è stato questo momento che si porta con sé gli strascichi non solo di un’economia bucata, ma anche psicologici legati alla deprivazione dei sensi, dell’imprevisto, del contatto.
Come una scultura vivente decisamente irriverente che anticipa l’inizio del valzer silenzioso delle performance c’è Supersciri, vestito di tutto punto, al contrario. Inquietante al punto giusto, mani in tasca e volto di capelli. Che sia questa la nuova normalità?
Poi arriva Elena Von Essen, che cerca di separare l’atto cerebrale della creazione con la mente, trasformando l’azione del disegno in una lotta tra corpo e ambiente: imbragata in una tuta, caviglie legate, il segno di Elena si estende nel punto massimo in cui la sua mano può arrivare, tracciando cerchi come in un redivivo schema di Uomo Vitruviano, ma stavolta – ovviamente – facendo cadere l’allure classico, disperdendo fatica e sudore, per un’astrazione che sul finale è un intreccio di cerchi a terra, terreno di una nuova battaglia.
Poi la giovane Lucrezia Balicco, che prepara un perfetto letto immacolato su un materasso gonfiabile che in pochi minuti perde tonicità, restando una superficie bidimensionale bianca, una buccia intonsa senza fisicità: il monocromo della fine di un amore.
Più complessa l’azione di Liber Dorizzi, che tramite passi di danza contemporanea si chiede se possiamo mantenere un legame fisico nonostante una separazione spaziale, mentre Verdiana Maria Dolce si presenta immersa in una vecchia vasca di legno da macellaio intenta a lavarsi via una goccia che cade dall’alto a intervalli regolari su un vestito immacolato; come togliere questa assordante onta che nonostante gli sforzi rende l’acqua blu, e la stoffa azzurrata? Come eliminare dal nostro mondo tutta la paura, la follia, l’indecenza che ha sporcato le nostre vite, i nostri rapporti, le nostre abitudini in questi ultimi mesi? Chi si è permesso di macchiare, contro la nostra volontà, la vita umana e il suo naturale svolgersi tra vita, malattia, morte, virus?
Judith Annoni, sempre a proposito di momenti di interdizione che abbiamo vissuto, esce da un lunghissimo bozzolo di corda bianca che lei stessa ha tessuto durante la quarantena, mentre Luana Rossin alza le mani al cielo, verso una ipotetica fiamma, e ci consegna una canzone del cantautore brasiliano Milton Nascimento, Cais: Eu queria ser feliz/ Invento o mar/ Invento em mim o sonhador
Forte l’azione di Giulia Fabbri, dal titolo Accorparsi: la giovane artista tramite pochi movimenti (accarezza un cuscino, “cova” con il ventre un acquario in cui sono rimaste solo conchiglie e sabbia, e raccoglie un mazzo di fiori selvatici che viene infilato tra le gambe e stretto in una danza dal rimando propiziatorio) esegue un avvicinamento ai vecchi ritmi della natura e abbandona il presente distopico.
Poi, ancora, tre presenze silenziose: Marco Bellomi, che per un’ora e mezza si aggira per il parco travestito da “sanificatore”, figura inquietante del contemporaneo, per poi rivelare che è l’arte il virus, mentre Giuseppe Mongiello misura gli arti superiori degli astanti, per raccoglierli in una fune che alla fine avrà la lunghezza di tutti gli ab-bracci donati, mentre il trio Pleto si fa bosco: di verde dipinti si posizionano – come Supersciri – al principiare della serata, in mezzo agli alberi del parco. Un rito di alienazione collettivo, e una presa di coscienza.
Un momento prezioso questa restituzione delle “produzioni” di The Momentary Now, specialmente in un momento del genere dove (per dovere di cronaca dobbiamo raccontarlo) i protagonisti di questa avventura sono stati rimpallati più volte dalle varie amministrazioni colte alla sprovvista nel dover approvare la richiesta di poter ritornare ad appropriarsi dello spazio pubblico. Una necessità insopprimibile, come respirare l’arte (e l’aria) dal vivo.
Che sia chiaro, se ancora non lo è.
Last but not least: la scuola di performance tenuta da Marcella Vanzo si replicherà di nuovo il prossimo anno, da gennaio a giugno, sempre con 20 incontri per una dozzina circa di partecipanti. Stay tuned!