L’elemento performativo, l’ibridazione con la danza ha acquisito sempre più interesse da parte della scena dell’arte visiva. In questo territorio spurio, ed inclusivo si diramano escursioni nelle quali le geografie in divenire del corpo prendono forma.
Ne è un esempio il festival internazionale di danza contemporanea della Capitale. Sotto la direzione artistica di Valentina Marini; che riesce ad espandere le performance arrivando fin sotto casa degli spettatori, con coreografie ispirate dai movimenti collettivi degli animali, gli riallestimenti site specific, e le connessioni con artisti nazionali e internazionali.
L’elemento della condivisione diventa portante in questa edizione, che forgia un metodo nel quale lo spazio e il tempo dei processi di creazione dialogano con la comunità. Un festival che vuole ragionare su alcuni valori che il tempo pandemico ha rivelato essere indispensabili per ripensare il nostro futuro: l’inclusività, la partecipazione, la diversità, la cooperazione.
Mi confronto con Sita Ostheimer, danzatrice, coreografa e direttrice artistica della compagnia berlinese che porta il suo nome. Il suo spettacolo Everything that’s left segna la conclusione della Geografia delle relazioni, la sesta edizione del Fuori Programma festival internazionale di danza contemporanea, all’arena teatro India, a Roma.
Nel corso della tua carriera hai esplorato lo spazio tra la danza e il corpo in movimento. Quando hai iniziato a coltivare un’interesse per la danza come pratica?
Ho iniziato a prendere lezioni di danza classica all’età di quattro anni. Da quel momento non ho mai smesso. Lavorando con il mio corpo, lo studio è divento sin da allora un luogo in cui mi sono sentita a casa, e mi sono salvata così. Nonostante le sfide, le lotte, le richieste e le pressioni che questa professione porta con sé.
Quali sono state le tue precedenti influenze?
Le mie influenze precedenti sono molte. E sono tutte relative alla creazione artistica, con l’obiettivo di emozionarmi ed emozionare anche gli altri. Ogni coreografo con cui ho lavorato ha lasciato un’impronta su di me, come per esempio le collaborazioni con Hofesh Shechter, Itzik Galili e molti altri. La musica poi è una parte importante del processo e influenza il mio percorso sia nella creazione che nei movimenti. Inoltre I ballerini che seguono i miei workshop e i ballerini con cui lavoro più stabilmente, mi offrono così tanti stimoli che mi ispirano ad aprirmi verso nuove direzioni. E la vita stessa poi ne offre ancora di più! Consiglio sempre ai miei studenti di abbandonare per un momento la pratica della danza e semplicemente vivere, guardarsi intorno, vedere il mondo, guardare le persone negli occhi, osservare, annusare, gustare, ascoltare. Anche questa è una pratica altrettanto necessaria!
Quanto l’interazione tra mente, corpo, spirito ed emozioni che prende forma nel tuo lavoro è cambiata durante la pandemia? Come si traduce all’interno del tuo sistema coreografico questo stato di disagio e di mancanza di interazioni con l’altro?
Tutti i ballerini e coreografi con cui parlo, mi dicono la stessa cosa: e cioè che la “pausa” della pandemia ci ha veramente dato una “pausa”. L’industria della danza e dello spettacolo, richiede di produrre e gestire in continuazione tanti progetti contemporaneamente, e senza neppure rendercene conto ci siamo trovati in una maratona. Dietro la possibilità di esibirsi, creare e fare tour c’è in realtà un’enorme macchina, che richiede di rimanere costantemente attivi e visibili. Ma l’Equilibrio tra il lavoro che facciamo e la possibilità di condividerlo veramente con gli altri, si era chiaramente perso, e la maggior parte di noi al momento dell’arrivo della pandemia, era esausta. Era una stanchezza con cui abbiamo imparato a convivere e quindi del tutto naturale per noi. Eppure questa pausa ha reso molto chiaro che fermarsi fosse necessario, facendoci fare un passo indietro. Non sentire il bisogno di fare, perché semplicemente non c’era possibilità di fare, è stata una benedizione. Abbiamo avuto la possibilità preziosa di tornare in noi stessi e respirare. Quello che ne ho tratto è il fatto di capire che desidero mantenere la calma. Adesso pianifico meno progetti, cerco di fare una cosa dopo l’altra e solo le cose di cui parla il mio cuore.
Come si manifesta la politica delle danza per te?
La politica nella danza è molto disordinata. Come ho detto prima, il rapporto tra la quantità di lavoro e il tempo che un progetto necessita per essere creato, e la reale possibilità di ottenere i finanziamenti per portarlo in scena è totalmente squilibrato. Sembra che due mondi che dovrebbero funzionare insieme siano in realtà molto disconnessi tra loro e anche dalla realtà. E ciò crea un enorme divario ponendoci dei grossi limiti. Io cerco di lavorare su questo, nel modo più completo possibile, concentrandomi su ciò in cui credo per andare avanti. Se appare una bella opportunità, ne sono grata.
Puoi introdurci il tuo spettacolo Everything that’s left?
Everything that’s left è uno spettacolo nato da un bisogno, da un desiderio e dall’amore di creare, muovere e produrre. È stato il primo vero progetto dopo la lunga pausa dovuta alle restrizioni della pandemia. Così siamo arrivati tutti in studio con una gran voglia di cominciare, di scavare nei movimenti, nell’atmosfera, nella creazione. Il duetto riguarda la ri-connessione, la ricerca della connessione, ma questa volta completamente disposta a fallire, a farsi male, a distruggersi e a ritrovarsi. È la voglia di vivere, amare e respirare finché ne abbiamo la possibilità. Il coraggio di connettersi.
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