Negli anni Novanta William Forsythe creava i Choreographic Objects, dando vita a un’interconnessione tra architettura, arte visiva e danza, perché secondo il coreografo e danzatore statunitense, classe 1949 e sperimentatore di nuovi linguaggi, non si poteva ridurre la coreografia a un singolo significato.
Oggi, Roberto Zappalà, coreografo e direttore di Scenario Pubblico / Compagnia Zappalà Danza Centro Nazionale di Produzione della Danza, dà vita a Panopticon / Il teatro igienico, in collaborazione con Maurizio Leonardi. Un’installazione concettuale e modulare che funge da dispositivo performativo per un solo danzatore e dove il contenitore, in una sorta di test sociale, diviene protagonista tanto quanto il contenuto. È lo sviluppo naturale delle precedenti nano performance ideate sempre da Zappalà al Farm Cultural Park di Favara: performance di pochi minuti di un solo danzatore per un solo spettatore. “È un dispositivo — mi racconta il coreografo nel cortile del Castello Ursino che, il caso vuole, è stato il palcoscenico del suo primo debutto quando aveva 17 anni e un carcere — che determina due viaggi diversi. Uno nel vuoto, quando non c’è nulla entri e ti immergi in un mondo di “carcerazione”; uno nel pieno, col danzatore. È un test sociale e di critica rispetto alla sorveglianza. Quando finirà la pandemia lo farò diventare un memoriale. Ogni stagione di danza che apriamo, faremo ogni sera un Panopticon Memorial, con tanto di distribuzione di mascherine. Per non dimenticare. È come quando ci raccontano della guerra che noi non abbiamo vissuto.”
A inscenare la danza in questo set componibile sono stati coinvolti i danzatori della sua compagnia (Filippo Domini, Adriano Popolo Rubbio, Fernando Roldán Ferrer e Joel Walsham) che si sono confrontati singolarmente con la propria coreografia.
“Il nostro Panopticon — spiega Zappalà — è un poligono con numero variabile di lati, realizzato in ferro e tulle, che esalta la dimensione della segregazione/prigione così come del distanziamento/isolamento sociale oltre che del voyeurismo. Nel nostro proposito l’osservatore non controlla chi lo circonda come nel caso del progetto originale di Bentham (carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, n.d.r). Saranno gli spettatori stessi che controlleranno il performer, isolati sia da lui che l’uno dall’altro, alludendo in tal modo anche all’ “Anopticon” di Umberto Eco che, in quanto opposto del Panopticon, deresponsabilizza il sorvegliante ponendo la domanda: chi sorveglia i sorveglianti? Il nostro obiettivo punta a creare un corto circuito tra sorveglianti e sorvegliati ma vuole anche rendere l’architettura scenica autonoma e protagonista.”
E in un’epoca dominata dall’Intelligenza Artificiale, da dispositivi tecnologici di controllo dentro e fuori dalla rete, dalla dipendenza dai social media e, in questo momento storico, dal distanziamento sociale forzato, l’installazione gioca proprio su un doppio binario; quello di sorvegliante e sorvegliato. A parlare di Panopticon e di questa ambivalenza è anche il filosofo Maurizio Ferraris che ha scritto: “I paesi capitalistici realizzano l’esatto opposto di uno stato di sorveglianza. Il Panopticon c’è, però è capovolto, e si traduce nel controllo dei governanti, ridotti allo stato di ubbidienti esecutori della volontà del popolo … i politici non sono influencer bensì influenced, ossia costantemente sotto scrutinio e intenti a misurare il gradimento social della loro azione”. E questa dimensione di “potere” la prova lo spettatore verso il danzatore in una fruizione solitaria, intima e al limite di una morbosità voyeuristica. “Lo spettatore — ci dice Zappalà — in questa installazione è il giudicante. Tutti siamo convinti di essere sorvegliati ma coi social siamo i primi ad avere una frenesia nell’osservare gli altri. Una volta quando prendevi l’autobus vedevi la gente leggere. Oggi la noia viene riempita esclusivamente attraverso il cellulare. Che non viene usato solo per parlare ma per sapere cosa stai facendo tu, a casa tua.”
Ma come funziona l’installazione? La struttura circolare prevede diverse postazioni (fino a un massimo di 20), ognuna per uno spettatore che a sua volta è isolato dagli altri spettatori da pannelli divisori neri. In ogni postazione un velo di spesso tulle separa lo spettatore dalla scena in cui si esibisce un danzatore per 15 minuti a turno. Tra una performance e l’altra passano 45 minuti, in modo che il visitatore del museo possa proseguire la sua visita nelle sale. Si ha come la sensazione di far parte di un test sociale. Il velo di tulle ci impedisce di avere una visibilità completamente a fuoco. Si ha piuttosto una visione miope della performance. I danzatori hanno lavorato sull’improvvisazione, con movimenti tendenzialmente nevrotici (nel caso di Fu di Filippo Domini e di Naca di Adriano Popolo Rubbio) e sull’introspezione spingendo sulle loro potenzialità corporee e del movimento. Facendo spesso convivere la performance e la danza coreografata e testando nuove modalità performative e percettive. “Ho capito — conclude Zappalà — che di questi lavori singoli ne farò una performance collettiva. Rimarranno le loro coreografie originali di cui ne farò uno spettacolo.”
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