L’assurdo Sisifo di Dimitris Papaioannou alla Collezione Maramotti

di - 1 Novembre 2019

È il peso di un’eterna punizione, quella che lo condanna a un lento e perpetuo vagare. Curvato sotto il peso di un enorme muro portato sulle spalle e trascinato avanti e indietro nel grande spazio, l’uomo si fa largo in mezzo al pubblico itinerante che segue il suo camminare senza meta, mentre un altro si aggira, senza guardare dove e urtando gli spettatori, tenendo sulle braccia un mucchietto di mattoni fino a coprirgli il volto. Siamo dentro il vasto spazio museale della Collezione Maramotti di Reggio Emilia, istituzione privata di arte contemporanea che ogni due anni chiama – in collaborazione con Max Mara e Fondazione I Teatri nell’ambito del Festival Aperto 2019 – un coreografo internazionale per una creazione site-specific. Quest’anno, l’invito della Collezione Maramotti è caduto su Dimitris Papaioannou, il coreografo, regista, performer e artista visivo greco, genio riconosciuto per la sua potente e originale scrittura visiva in movimento, derivata dal gran lavoro sul corpo capace di trasfigurazioni simboliche che attingono a fonti mitologiche, letterarie, pittoriche, cinematografiche: un immaginario costruito con materiali di Arte Povera.

Sisyphus/Trans/Form, Collezione Maramotti, Aperto Festival, Reggio Emilia. Photograph by Julian Mommert

Papaioannou porta l’Assurdo alla Collezione Maramotti

Sisyphus/Trans/Form, questo il titolo, s’ispira, in parte, a Still life, spettacolo rivelazione del talentuoso Papaioannou con la sua metafora del mondo del lavoro, dove persone costrette a compiti spesso inutili e mortificanti venivano rappresentate senza alcuna speranza di emanciparsi. In Sisyphus/Trans/Form di avvilente e vano c’è l’azione ripetitiva del costrittivo vagare. Tutto si svolge nel silenzio assoluto, rotto soltanto dall’ansimare dell’uomo per la fatica, e dallo sgretolarsi di pezzi di calcinacci che si staccano dalla parete del muro. Il rumore arriva amplificato da un microfono tenuto in mano da un “maestro di cerimonia”. Questi è lo stesso Papaioannou. In completo nero – divisa anche degli altri performer -, egli è parte del meccanismo scenico che lo vede manovrare un occhio luminoso disposto su un carrello mobile a terra, a illuminare in avanti la traiettoria, sempre deviata, del moderno Sisifo.

Sisyphus/Trans/Form, Collezione Maramotti, Aperto Festival, Reggio Emilia. Photograph by Julian Mommert

Del mito greco sappiamo la condanna – inflittagli da Zeus per la sua tracotanza e per i molti inganni – a far salire su un monte dell’oltretomba un enorme macigno destinato a rotolare di nuovo giù dalla cima, per essere ancora spinto in alto. E così via per tutta l’eternità. Papaioannou, ispirandosi alla rilettura che ne diede Albert Camus, cantore dell’assurdità dell’esistenza (per il filosofo francese, Sisifo è un condannato libero, che conosce perfettamente la sua miserabile condizione ma non rifiuta il proprio destino) lo innerva di uno sguardo contemporaneo che possa illuminare la ricerca di senso dell’essere umano.

Il campo di battaglia del corpo umano

Con i suoi tableaux vivant alla Collezione Maramotti («Penso il corpo umano come un campo di battaglia: provo a farlo a pezzi, per poi rimontarlo di nuovo», in questa dichiarazione è racchiusa la poetica di Papaioannou, come già vi scrivevamo a proposito del suo omaggio a Pina Bausch) l’impatto visivo tipico di Papaioannou è dato dal gioco d’illusione che crea scomponendo e incastrando gli arti di due performer – ai quali, nello scambio, si aggiungerà un terzo – dentro lo squarcio invisibile che si produce al centro della parete (di gomma dura e spessa). Inghiottiti, espulsi e riemersi dalla crepa, i corpi s’ibridano con un’intricata serie di movimenti, torcendosi e girando busto, braccia, gambe e piedi, fondendosi l’uno nell’altro per effetto di illusioni ottiche della figura umana in cerca di equilibrio. E di solidarietà.

Sisyphus/Trans/Form, Collezione Maramotti, Aperto Festival, Reggio Emilia. Photograph by Julian Mommert

Sarà una donna, infine, a intervenire scambiando i ruoli, dopo che all’uomo sarà stato tolto un simbolico, informe fallo, e infilato nell’abito maschile indossato, nel frattempo, dalla donna. È lei, adesso, a farsi carico del pesante muro. L’ultima scena è un’ulteriore condanna dell’uomo nella sua fatica del vivere. Nudo, di schiena, schiacciato su una parete, poi sostituito da un altro, è costretto a trattenere con tutte le parti del corpo delle sottili lastre di legno nero che il “carnefice” man mano inserisce incastrandole. Fino a che, esausto e senza più forze, l’uomo cede lasciando cadere tutto.

Una liberazione dal castigo divino? Non sappiamo se rientri anche nella performance, ma lo stesso regista, dopo gli applausi, ritorna con dei secchi in mano a raccogliere da terra i calcinacci sgretolatisi dal muro. Semplice ed emblematica azione che si presta a ulteriori riflessioni sul nostro tempo. E sull’artista.

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