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Nei territori della performance (1967 – 1982): la mostra al MAXXI di Roma
Arti performative
Dallo scorso 21 ottobre sino al prossimo 28 maggio sarà possibile visitare l’esposizione “Territori della performance: percorsi e pratiche in Italia (1967 – 1982)“, allestita presso l’Archive Wall del MAXXI di Roma e fruibile gratuitamente. Si tratta di una raccolta di oltre 100 contributi, tra fotografie, disegni, schizzi, riviste e pubblicazioni d’epoca, video, testimonianze orali, per raccontare 15 anni di grande sperimentazione delle pratiche performative in Italia, nel pieno dei movimenti d’avanguardia degli anni Settanta.
Attraverso un’inedita mappatura geografica e topografica, il focus racconta le varie declinazioni delle pratiche performative, con una particolare attenzione alla duplice dimensione territoriale in cui hanno avuto luogo, quella geografica e quella degli spazi di accadimento del gesto performativo. Il percorso espositivo si configura così su quattro aree cromatiche, corrispondenti allo studio e all’ambiente domestico (verde), alla galleria (arancione), agli spazi informali e alternativi (grigio) e al contesto istituzionale (giallo).
Il visitatore avrà l’impressione di immergersi, ad esempio, in ambienti privati, come lo studio dell’artista o del fotografo, con le azioni di Renato Mambor, Marisa Merz, Vettor Pisani. Attraverso la documentazione degli interventi di Vito Acconci, Jannis Kounellis, Meredith Monk, Luigi Ontani e Gina Pane emergerà la costellazione di quelle gallerie che in Italia svolsero un lavoro pionieristico per la performance. Con artisti come Laurie Anderson, Giuseppe Desiato, Joan Jonas e ORLAN si scopriranno gli spazi di intervento informali e le realtà espositive alternative. Marina Abramovic, Tomaso Binga, Yayoi Kusama, Carolee Schneeman, invece, ci porteranno all’interno di istituzioni e grandi rassegne.
Infine, dai documenti emergono le figure centrali dell’epoca, tra le quali Joseph Beuys, John Cage, Giuseppe Chiari, Gino De Dominicis, Luciano Fabro, Urs Lüthi, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri, Hermann Nitsch, Cesare Pietroiusti, Michelangelo Pistoletto, Demetrio Stratos, Gilberto Zorio, solo per citare alcuni nomi.
Abbiamo intervistato Lara Conte, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università Roma Tre, e Francesca Gallo, docente di Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza Università di Roma, per conoscere a fondo questa imperdibile mostra.
In che maniera viene narrata la dimensione territoriale richiamata nel titolo della mostra?
Lara Conte «Il titolo della mostra, “Territori della performance”, è per noi inteso in una maniera duplice, in senso geografico e topografico. Ed è stata questa dimensione territoriale la prospettiva teorica attraverso la quale abbiamo orientato la nostra ricerca. Abbiamo voluto dar conto della ricchezza di esperienze, di manifestazioni ed eventi che hanno avuto luogo in Italia, nei grandi centri dell’arte, come Roma e Milano, ma anche in molti altri contesti più periferici e marginali, con una convergenza di artisti e artiste italiani e di protagonisti della scena internazionale. In questa prospettiva la mostra fa emergere una costellazione di realtà, anche attraverso un serrato confronto dialettico che si attiva tra le ritualità collegate ai “luoghi” e l’apertura verso il dialogo transnazionale.
Inoltre la dimensione territoriale è diventata per noi la prospettiva attraverso cui mappare gli spazi di intervento: ovvero gli “orizzonti operativi” corrispondenti allo studio dell’artista (o del fotografo) e allo spazio domestico; alle gallerie private – che per una breve e intensa stagione riescono a integrare nel sistema dell’arte la natura demercificata della performance; agli spazi alternativi e ai luoghi informali (incluso lo spazio urbano o naturale). Per arrivare agli spazi istituzionali, che nella seconda metà degli anni Settanta, sanciscono il progressivo ingresso delle pratiche performative all’interno del sistema museale ed espositivo ufficiale».
Quale filo conduttore è stato individuato per unire pratiche artistiche così diverse?
Francesca Gallo «In effetti con il termine performance ormai si indicano pratiche artistiche anche piuttosto diverse tra loro, dagli happening alla Body Art, dagli events di Fluxus a workshop e occasioni relazionali degli ultimi anni. La mostra propone performance di artisti visivi, centrate prevalentemente sul corpo dell’artista o di qualcuno da questi delegato: vi è pertanto un corpus vasto ma coeso di azioni eseguite dal vivo da artiste e artisti che mettono a tema temi legati all’identità e all’autorappresentazione, alla politica, alla violenza, alla sessualità e ai rapporti interpersonali.
Il corpo dell’artista si presenta pertanto nudo o vestito, idealizzato o quotidiano, circondato da elementi simbolici, isolato oppure in dialogo con altri, concentrato nella voce oppure alla prese con una serie di mediazioni tecnologiche; immobile come un quadro o una statua, oppure impegnato in rituali estenuanti o parossistici; attraverso l’occhio di uno spettatore d’eccezione come il fotografo che riprende a studio, oppure in mezzo al pubblico; o ancora attraverso il filtro della critica a sua volta alle prese con le irrequietezze lessicali di un medium in via di definizione».
Come si delinea il percorso espositivo? Come dialoga con lo spazio dell’Archive Wall del museo Maxxi?
LC «Rispetto alle precedenti mostre dell’Archive Wall, per questa esposizione non abbiamo lavorato su un unico Archivio o sulla presentazione di un fondo archivistico acquisito dal MAXXI, ma abbiamo sviluppato una ricerca che ha incrociato e si è interfacciata con molteplici centri di documentazione e con molti archivi di istituzioni, di artisti, galleristi e fotografi.
Attraverso il reperimento di fonti diverse – fotografie, film e video, riviste e pubblicazioni dell’epoca, memorie orali – abbiamo strutturato un percorso cronologico, dal quale emergono, ad esempio, spazi ibridi e realtà alternative che, nel corso degli anni, hanno a vario modo ridefinito le pratiche, rimodulato i confini linguistici, agevolato la fluidità di nuovi orizzonti performativi.
Per fare qualche esempio: il Piper Club a Torino, nella seconda metà degli anni Sessanta, gli Incontri Internazionali d’Arte a Roma negli anni Settanta, il Sixto/Notes a Milano, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Nell’arco cronologico preso in esame, gli stessi spazi delle gallerie hanno riplasmato la loro natura per agevolare una nuova prospettiva di lavoro corporeo, comportamentale e processuale: si pensi alla pionieristica attività di Fabio Sargentini a Roma, che nel garage di Via Beccaria ha organizzato eventi epocali come il Festival Danza Volo Musica Dinamite e performance e azioni di artisti come Jannis Kounellis, Gino De Dominicis, Eliseo Mattiacci, Luigi Ontani…
Ma si pensi anche a tutti quei contesti (domestici o pubblici) in cui hanno agito, attraverso i loro corpi, le donne artiste, ribaltando prospettive patriarcali, avviando percorsi radicali di autoaffermazione. Per fare qualche nome: Giosetta Fioroni, Anne Marie Sauzeau, Gina Pane, Marina Abramovic, Meredith Monk, Takako Saito, Stephanie Oursler, il Collettivo XX…
In stretta relazione con l’Archive Wall, nei tavoli-vetrine si sviluppano quattro focus tematici che permettono di approfondire alcuni aspetti legati allo studio e alla ricezione della performance art, come la fluidità e la varietà del lessico con cui si definisce il performativo in Italia. Inoltre, attraverso i materiali provenienti dall’Archivio degli Incontri Internazionali, conservato al MAXXI, viene presentata una mostra radicale e dirompente come “Contemporanea” tenutasi nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma nel 1973-1974; e, grazie ai materiali dell’Archivio del fotografo fiorentino Gianni Melotti, si possono rileggere con una prospettiva inedita molte performance tenutesi in diversi spazi e realtà geografiche italiane, che sono state occasione di incontro di grandi protagonisti internazionali di Fluxus e della Body Art».
È possibile individuare una stagione “cruciale” delle arti performative in Italia?
FG «La cronologia individuata corrisponde alla fase di emersione e affermazione delle ricerche artistiche performative, tanto a livello internazionale quanto nel nostro paese. Tra la fine degli anni Sessanta e per almeno un decennio infatti la performance vive una stagione di particolare popolarità, anche presso artisti che poi hanno abbandonato questo settore per riprendere le ricerche pittoriche o installative. Quindi i quindici anni su cui è concentrata la mostra possono a buon diritto essere definiti fase “cruciale”. Dalla seconda metà degli anni Settanta la mostra evidenzia il passaggio dal ruolo di punta svolto dalle gallerie al crescente interesse istituzionale di pari passo anche alla nascita di alcuni musei dedicati al contemporaneo: accanto alla biennale di Venezia, infatti, la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna svolge un ruolo di punta con le varie edizioni della Settimana internazionale della performance, e nel medesimo ambito regionale anche la Sala Polivalente di Palazzo dei Diamanti a Ferrara ospita proprio pratiche ibride di azione live.
Tuttavia sporgersi sugli anni Ottanta, secondo un approccio meno scontato, ha permesso di intercettare alcune traiettorie di continuità che conducono fino agli anni Novanta: basti pensare a figure come ORLAN, Luigi Ontani, Marina Abramovic, Ulrike Rosenbach, Tomaso Binga, la rivista «Baobab» attorno ad Adriano Spatola, Giuseppe Chiari, Laurie Anderson, Joan Jonas. E allo stesso tempo sono emerse le prime esperienze di esordienti che poi hanno coerentemente proseguito con l’azione dal vivo fino ad oggi: come per esempio Cesare Pietroiusti. In questa prospettiva, quindi, sono più d’uno i percorsi carsici che alimentano il rifiorire dell’azione dal vivo alla fine del XX secolo».