Quattro artisti, quattro azioni, all’interno dei padiglioni 15 e 18 della Fiera, coinvolgendo anche l’area Talk. Torna per il secondo anno “Oplà. Performing Activities”, il format di opere dal vivo concepito da Silvia Fanti specificamente per Arte Fiera. E stavolta, in scena, vi sono Alessandro Bosetti, Luca Vitone, ZAPRUDER filmmakersgroup e Jimmie Durham. Ne abbiamo parlato con l’ideatrice
Tra le varie definizioni della parola oplà c’è quella di: esclamazione che si fa saltando, compiendo un breve esercizio ginnico o vedendo altri compierne. Un suono onomatopeico cha da il titolo al programma di live arts all’interno di Arte Fiera, come hai concepito questo formato?
«È vero, la parola Oplà implica un’azione, una visualizzazione e un’immediatezza temporale: un cambio repentino di stato e la constatazione che qualcosa è stato fatto o qualcosa è accaduto. L’antesignano nominale potrebbe essere il formato Hops!, progetto legato alla performatività che abbiamo inventato e praticato a fine anni ’90 a Bologna. C’è anche un mio ‘verme mentale’ legato a Oplà, noi viviamo! di Ernst Toller e poi completamente decontestualizzato. Ma accanto all’immagine evocata dal titolo c’è una precisa affermazione sulle pratiche indagate: Performing Activities. Mi interessava contestualizzare e evitare il mero decorativismo, in cui può cadere la performance in contesti dispersivi e ipercarichi di stimoli, dove si getta l’occhio e si consuma velocemente. Inutile dare un appuntamento in una fiera. Il regime temporale non è quello dello spettacolo, del teatro, ma neanche della contemplazione. L’idea è di creare un continuum procedurale. La performance in questo caso è un percorso, un ciclo, un’attività, una routine, un processo, un lavoro. Penso alle activities di Allan Kaprow e alla sua concezione di blurring of art and life, a quanto siano sovrapponibili vita e creazione, o all’idea di pratica artigianale di Richard Sennett, che in fondo corrisponde alle prassi degli autori che ho scelto per queste due edizioni (effettivamente dei ‘fuori classe’). Aggiungo che i criteri condivisi con Simone Menegoi sono stati anche la focalizzazione su artisti italiani o legati all’Italia, e la produzione di azioni ad hoc che si è rafforzata in questa seconda edizione, coinvolgendo le competenze trasversali di Xing e non solo me in veste curatoriale (abito che mi sta un po’ stretto). Da questo punto di vista credo che Arte Fiera sia l’unica fiera d’arte internazionale che si è posizionata chiaramente nella zona di incrocio tra arte e performance producendo e non solo raccogliendo l’esistente. In ultimo, o forse in principio: è chiaro che Arte Fiera ha colto e beneficia di una storia lontana e recente legata alla performance a alle live arts che a Bologna è stata coltivata negli anni, dall’evento chiave della Settimana della Performance del 1977 all’attualità della Live Arts Week».
Quali sono le specificità di creare un programma di live arts all’interno di un contesto di una fiera d’arte?
«Le limitazioni sono tante ma è anche molto interessante affrontarle e capire come farle tue o aggirarle. La mia prima esperienza in un contesto fieristico è stata a Torino ad Artissima in cui sono stata per tre edizioni nella giuria di Per4m K-Way. È stato utile osservare i tentativi di innesto delle performance nella fiera, misurandomi con sguardi critici e operativi molto diversi dai miei (la mia formazione è teatrale). Tuttora mi pare che l’approccio del mondo delle arti visive alla performance sia prevalentemente semplicistico. Si dimentica che l’azione dal vivo non è fatta da un solo agente (l’artista, il performer), ma dal contesto e da chi lo abita, anche se solo temporaneamente. La performance è organica, sensibile, condivisa, consapevole. Credo che l’atteggiamento più produttivo in una fiera d’arte sia quello meta-performativo. Lasciamo perdere le visite guidate: si tratta di insinuare delle performance in un contesto funzionale, attivando la possibilità di partecipazione e condivisione dell’opera dal vivo e la costruzione di una serie di micro-sistemi di creazione, relazione, servizio».
Affermi che lavorare nel contemporaneo significa oggi creare occasioni, contesti e tempi che mostrino non più ‘che cosa è’ l’arte, ma ‘che cosa fa’ l’arte, puoi dirmi qualcosa di più in proposito?
«Il passaggio tra un’opera percepita nella distanza e un’arte vissuta come esperienza non è inedito, ed è stato assorbito ed adottato da tutte le istituzioni mondiali del contemporaneo. Arte come condivisione di esperienze individuali e produzione di significato, piuttosto che ammaestramento o rituale socio-economico. Il tema della spettatorialità è centrale. Per smontare la frontalità bisogna creare delle ‘situazioni’, o approfittare di quelle che esistono già. Da questo punto di vista un progetto emblematico in questa edizione è ad esempio quello di Alessandro Bosetti, che si basa sulla trasformazione di materiale sonoro acquisito nella fiera, immediatamente processato e restituito pubblicamente in una nuova forma compiuta (ma non definitiva). Un’operazione plausibile e misteriosa, una mappatura polifonica e idiosincratica basata sulle sonorità del linguaggio parlato e sull’estrazione/astrazione di testimonianze, in cui può capitare di far parte e di cui si può seguire l’intero percorso creativo, mostrando l’ambiguità alla base di ogni creazione, in un feedback continuo».
Cosa vedremo in questa seconda edizione di Oplà per Arte Fiera 2020?
«L’Ombra, la sound performance di cui si diceva è un reportage poetico che attinge da un archivio sonoro in crescita. Microfono alla mano, Bosetti raccoglie e restituisce un corpus di frammenti vocali, registrati muovendosi tra la comunità effimera di voci che per tre giorni abita la ‘situazione’ fiera: visitatori, espositori, tecnici, artisti… Per ogni frammento raccolto Bosetti crea un suono ombra, per poi intrufolarsi nel palinsesto temporale con delle brevi restituzioni vocali e performative, negli interstizi del programma dei Talks curati da Flash Art. Jimmie Durham presenta THE BUREAU, il re-enactment di una sua performance iconica del 2004, Smashing: seduto a una scrivania distruggerà “ufficialmente” con una pietra gli oggetti che gli verranno presentati dal pubblico. Al completamento di ciascuna operazione andata a buon fine verranno emessi da lui stesso i certificati ufficiali. Un’affermazione sugli oggetti, il valore monetario e l’idea di autenticità. Devla, devla… è l’azione pensata da Luca Vitone che ha anche realizzato delle opere scultoree per accoglierla. Donne e uomini rom, nascosti dietro separé disseminati tra i padiglioni, leggeranno il futuro a chi vorrà confrontarsi con la chiaroveggenza. Devla, devla… nasce dalle suggestioni che hanno dato vita al progetto Romanistan.Per Vitone la cultura romanì rappresenta un ideale moderno e transnazionale di popolo, questione evidentemente attuale. ANUBI IS NOT A DOG è un set-performance dove sarà possibile seguire il lavoro di making di ZAPRUDER filmmakersgroup: preparazione della scena, ciak, riscaldamento dei corpi, manipolazione del suono. È un momento inaugurale, l’avvio di un nuovo progetto che si diffonderà in molteplici diramazioni, confluendo per accumulo in un’opera complessa, un film. Zapruder usano il dispositivo di visione dello spazio in cui opereranno per enfatizzare la separazione dei sensi: udito e vista restituiranno paesaggi diversi. L’immagine guida del progetto è una quadreria di soli cani. Soggetto di questo film in fieri è il rapporto di affinità simbiotica tra cane e proprietario, tra possedere e essere, tra spettacolo e gioco, nel rimando continuo di immagini riflesse».
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