Abbiamo bisogno di identità, di relazioni e di possibilità. Abbiamo bisogno di storie, di momenti e di realtà. Proseguirà fino al 12 maggio 2024, a Bergamo, l’undicesima edizione dell’Orlando Festival, promosso dall’Associazione Culturale Immaginare Orlando e Laboratorio 80. Coreografato e diretto da Elisabetta Consonni, il festival, durante le dieci giornate, dà spazio all’arte performativa e al cinema.
In un presente come quello che stiamo vivendo, più che mai sono indispensabili convergenze, visioni, atti performativi che raccontano realtà oltre le norme e identità non centrate. «Abbiamo bisogno di storie abbastanza grandi da contenere le complessità e mantenere gli argini e i confini aperti e affamati di nuove e vecchie connessioni capaci di sorprenderci», scrive Donna Haraway.
Queer, alterno, ampio, non centrato e inclusivo sono solo alcune delle caratteristiche del festival d’arte performativa di Bergamo, che sembra avere come obiettivo quello di far convergere polivisioni, avere una mescolanza di pubblici, suscitare ilarità e sottolineare discrepanze. Da sempre, con le edizioni precedenti, il festival sembra essere impegnato ad allargare gli orizzonti di possibilità dell’essere, come avrebbe detto Paul B. Preciado, e così l’edizione 2024 vuole immaginare nuove parallele, visioni di possibilità, per essere plurali.
Cosa vuol dire essere plurali? Che senso ha fare un festival d’arti performative in un contesto come quello che stiamo vivendo? Cosa deve dire? Ecco allora che il festival occupa spazi della città ben storicizzati, come l’ex casa del fascio, ora Palazzo della Libertà, nata con il nome di casa littoria e intitolata ad Antonio Locatelli. È un’altra Locatelli, ossia la partigiana Adriana Locatelli, che questa edizione del festival vuole portare alla memoria. L’evento diventa una presa di posizione, una chiara dissacrazione di quei luoghi, o meglio, un’estensione di quelle memorie per non farle diventare uno sfondo neutrale, ma per prendersene carico e riposizionarle.
Gli spazi si occupano, diventano altro e allora in quelle sale dove il fascismo limitava i diritti, invece si mostrano connessioni, intrecci e moltitudini. È il caso dell’opera performativa e sonora, che ha inaugurato questa undicesima edizione, Chthulucene. L’umana parentela del collettivo T¥RSO. Un concerto improvvisato dove, con due performer, prende forma una geografia sonora in cui emergono infinite connessioni e intrecci umani. Oppure lo spettacolo teatrale Je Vous Aime: una performance per gli udenti di Diana Anselmo e con Sara Pranovi, dove si mette in scena l’antistoria, quella storia ignorata, selezionata e condotta ai margini. L’opera affronta i temi dell’audismo, del fonocentrismo, del linguicismo e di tutte quelle parallele imposte alle persone sorde nel corso della storia. Cosa vuol dire segnare? Se in principio c’era il verbo e il verbo era Dio, dove si colloca il gesto?
Le attività sono molteplici, le identità plurime e il programma è ampio. Ecco allora che durante i giorni del festival prendono luogo incontri, talk, laboratori di arte pubblica e collettiva, come: Un’Anagrafe Fantastica, un laboratorio di attività pratiche e dibattiti attorno ai temi delle identità; Anticorpo, un lavoro performativo di Giacomo AG/giache che esplora pratiche di cura personale e reciproca tra persone trans; o As Far As My Fingertips Take Me, una performance di Tania El Khoury, con Basel Zaraa, che riflette sull’effetto della discriminazione e sull’impatto delle frontiere.
Il Festival Orlando porta a Bergamo esperienze altre che raccontano di molteplicità e di pluralità. Diviene un invito ampio che richiama a riflettere su quali siano i confini, i margini, le identità, gli stati di “sfamiglia” e le centralità.
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