Il teatro può essere una forma di esperienza interiore alla ricerca del tempo – quello che si è perduto in questi due anni di pandemia e di conflitti – in un frangente storico come questo dove abbiamo più che mai bisogno di ri-trovare il nostro tempo insieme agli altri?
Il teatro ci dona tempo, ce lo offre sotto forma di un respiro più lungo, morbido che modifica i movimenti del nostro sentire, assaporato grazie alla sospensione temporanea delle spinte e delle accelerazioni esterne che non tengono conto delle nostre andature interiori. Quando poi è condiviso con gli altri, seduti accanto a noi in un’esperienza catartica di spostamento dai territori consueti del vivere, esperiamo forme di comunità inedite, non abituali, che ci aiutano a elaborare i vissuti passati e presenti non solo tramite le emozioni condivise ma anche grazie alla prossemica dei corpi degli spettatori, attori come noi della vita a cui s’ispira il teatro. Lo sapevano molto bene gli antichi Greci, che ci hanno donato il teatro e specialmente la tragedia come forma di cura interiore, di elaborazione dei drammi esistenziali.
Can you feel your own voice?, suggestivo titolo del celebre festival che si è chiuso a Santarcangelo il 17 luglio, rilancia il tempo lungo dello stare insieme, fisicamente partecipi di un contesto che per la quotidianità delle nostre esistenze rappresenta un altrove e che invece vuole essere “… un’enclave sicura in cui ritrovare i nostri valori innegoziabili, la nostra voce più intima e profonda…” grazie all’incontro (e al coinvolgimento diretto, in diversi casi) con le opere di oltre 40 autori tra artisti, gruppi e compagnie della scena emergente globale, le cui voci ci hanno portato a contatto ravvicinato con le nostre voci interiori.
La percezione di un tempo ridonato e ritrovato grazie al teatro emerge sia nelle parole del direttore artistico del festival Tomasz Kireńczuk che nella configurazione spaziale dei luoghi cittadini dove, tra i vari progetti, ha fatto realizzare nella piazza centrale del paese (Piazza Ganganelli) una grande tavola rotonda in legno del diametro di 12 metri, il cui centro è stato trasformato nell’arena di diverse opere performative durante le giornate teatrali. Simbolo leggendario di ritrovo, ricongiungimento e condivisione, la tavola rotonda ha invitato il pubblico a interagire con i propri vicini e con gli stessi protagonisti delle opere attivando il confronto e lo scambio liberi da gerarchie sociali e barriere architettoniche.
È successo con l’opera Jumpcore di Paweł Sakowicz – ispirata al salto nel vuoto del ballerino Fred Herko nel 1964, che lo portò al suicidio – dove la tavola rotonda rappresentava il ring di un corpo a corpo del performer polacco con se stesso sfidando la gravità fisica con una sequenza ininterrotta di 40 minuti di salti. Vestito come un pugile in shorts, sneakers e vestaglia, Sakowicz ha interpretato l’azione del salto con movimenti continui e ripetuti attraversando diversi generi di danza (dal rave al balletto classico). Grazie alla vicinanza degli spettatori alla scena l’artista li ha coinvolti psicologicamente nella fatica dei movimenti, nei salti e nelle cadute, portandoli a ricordare il desiderio atavico dell’uomo di volare – un volare che può essere sinonimo di elevazione, leggerezza, sogno ma anche di follia, smarrimento, autodistruzione.
Una configurazione spazio-narrativa quella della piazza quale luogo d’incontro e di accadimenti condivisi traslata felicemente anche nella scelta di adottare un luogo della memoria locale, il cementificio abbandonato Buzzi-Unicem di San Michele a poca distanza da Santarcangelo, oggi reperto di archeologia industriale dalle atmosfere post-apocalittiche, che ricorda una stagione di benessere economico e sociale ormai lontana. La sua conformazione architettonica ben si è prestata a realizzare una sorta di palcoscenico-piazza, raccolto e isolato rispetto al contesto circostante, che amplificava le relazioni di vicinanza tra il pubblico, la drammaturgia e le gestualità degli attori.
Su invito di Kireńczuk la regista e drammaturga polacca Anna Karasińska vi ha ambientato una pièce teatrale dal titolo New Creation, nata dall’incontro con alcune persone di età, nazionalità e formazione differenti invitate dall’artista a recuperare le potenzialità del luogo mediante un’azione performativa corale, basata sul racconto delle loro storie di vita, una delle quali strettamente connessa all’ex cementificio.
Un processo di scoperta reciproca dei concetti di visibilità, espressione di sé e appartenenza, aperto al pubblico, coinvolto a sua volta a leggere accanto ai protagonisti brani delle esperienze di un migrante ghanese (assente sulla scena) calandosi non solo nei suoi panni ma mettendosi in una posizione inedita, ribaltata, sia nel teatro che nella vita.
L’esperienza di un altro tipo di “piazza” è il fulcro del lavoro eccellente ambientato dentro il centro commerciale riminese Le Befane dal titolo L’Âge d’or di Igor Cardellini e Tomas Gonzalez. Il duo svizzero ha concepito e orchestrato una specie di “deambulazione situazionista” da far vivere agli spettatori all’interno di un tempio della nostra Età dell’oro – lo shopping center – accompagnati da un’attrice nelle vesti di guida turistica sui generis alla scoperta dei principi e dei canoni più o meno percepibili di costruzione, arredo, commercio e vita che regolano l’esistenza di luoghi del capitalismo neoliberale, simbolo di un’abbondanza infinita e accessibile a chiunque. Dotati di shopper del centro commerciale, cappellino (elemento di riconoscimento del gruppo nella folla) e caramelle offerte per rallegrare la visita, gli spettatori-performer sono stati guidati in un’esperienza teatrale-antropologica alla scoperta dei segreti di un luogo dei non luoghi. Un processo di disvelamento e di consapevolezza di modelli di vita non più sostenibili che prevedeva anche il ribaltamento dei comportamenti abituali: come correre nei corridoi cercando di scivolare sui pavimenti lucidi; ballare, cantare e giocare con la merce dentro uno dei negozi; aggirarsi nel supermercato scegliendo a caso un prodotto qualsiasi guidati dall’istinto (operazione di memoria dadaista) riservandosi solo alle casse se acquistarlo o meno; e infine, visitare clandestinamente uno degli spazi lasciati sfitti a causa della crisi pandemica, nascosto ai frequentatori dello shopping center per salvaguardare l’immagine illusoria di abbondanza e di paradiso artificiale.
Questa edizione del Festival si ricorderà per essere stata particolarmente immersiva e coinvolgente, lasciandoci un sentimento ben tradotto dalle parole di Kireńczuk: “Abbiamo bisogno di spazi condivisi. Luoghi nei quali dare vita a comunità temporanee per celebrare la nostra diversità, realtà di apprendimento che cerchino la loro forza nelle differenze dei corpi, delle voci, dei contesti e delle prospettive… Queste artiste e artisti ci trascinano fuori dalla nostra routine quotidiana, allontanandoci dalle consolidate interpretazioni della realtà. Così facendo, ci donano qualcosa di estremamente prezioso: tempo e spazio per le nostre ricerche individuali.”
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