06 giugno 2024

Se i performer sono giovani migranti: intervista a Luis Casanova Sorolla

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L'artista peruviano Luis Casanova Sorolla ci racconta il suo ultimo progetto, presentato al Centro di Accoglienza Minori Stranieri di Lugo, con il coinvolgimento performativo di giovani migranti

A quali orizzonti semantici nascosti può aprire la danza? Fino al 16 giugno 2024, il Centro di Accoglienza Minori Stranieri non accompagnati Santa Maria in Fabriago di Lugo, in provincia di Ravenna, ospiterà l’ultima opera dell’artista peruviano Luis Casanova Sorolla, Quando la speranza danza, a cura di Oscarito Sanchez e con il coordinamento di Vitali Stepaniuc della cooperativa SOLCO. Dopo aver collaborato con il balletto dell’Opera di Vienna, l’ultima opera di Sorolla è stata ispirata dalla sua storia di migrante ed è stata realizzata insieme ai ragazzi del Centro, provenienti da diverse parti del mondo. La ricerca dell’artista, sempre frutto dell’interazione tra performance, pittura, fotografia e scultura sonora, si misura stavolta anche con l’improvvisazione e con la storia complessa dei giovani protagonisti. Per scoprire di più su questa sperimentazione, gli abbiamo rivolto qualche domanda.

La tua ricerca ruota sempre attorno alla musica e alla danza, e ogni opera nasce dalla collaborazione con i professionisti del settore. Perchè stavolta hai cercato i tuoi performer in un Centro di Accoglienza per giovani migranti?

«Nella mia ricerca di solito collaboro con i professionisti del settore per trovare espressioni profonde e sincere. Tuttavia, so che si può trovare qualcosa di altrettanto intenso e vero anche con pratiche intermittenti, come è successo nel mio personale rapporto con la capoeira (a cui mi sono dedicato per 25 anni, ma che non pratico quotidianamente). Lo stesso accade con i ballerini e le ballerine di ogni cultura: possono esprimersi in maniera autentica anche senza essere assidui o professionisti. In questa collaborazione con i giovani migranti non sapevo chi avrei incontrato: è stato un “invito” del destino più che una ricerca, e tutto è iniziato chiedendo se ci fosse qualcuno con un’inclinazione verso la danza. Sapevo che per loro sarebbe stato qualcosa di profondo e trasformativo, per questo ho accettato la sfida con tutto il rispetto e la cura del caso».

Anche tu sei stato un migrante. Come hanno reagito i ragazzi al tuo arrivo e al tuo lavoro?

«Prima di arrivare dalle mie sorelle a Vienna a quindici anni, vivevo con i miei a Lima. Sapevo che mi sarei dedicato all’arte, e l’idea di venire in Europa con un biglietto di sola andata è stata una scelta intuitiva nella speranza di avere una prospettiva migliore. Lasciare tutto così presto è stato un trauma inconscio, “curato” solo dall’accoglienza e dalla speranza. Quando ho incontrato i ragazzi del Centro per la prima volta, ho visto nei loro sguardi tanta incertezza ma anche tanta curiosità, esattamente come mi sono sentito anch’io i primi tempi. Forse è per questo che mi sono sentito da subito parte del Centro: la prima opera infatti è nata già il primo giorno, insieme a Mohammed (17 anni, Guinea), che mi aveva mostrato alcuni video e passi che conosceva di una danza tradizionale della sua regione.

Abbiamo sfruttato la luce naturale che entrava dal lucernario delle scale e ci siamo messi all’opera. I ragazzi che erano appena tornati da scuola erano molto incuriositi, lo salutavano e lo incoraggiavano. Mohammed all’inizio era nervoso, ma sapeva cosa fare: dopo aver finito di ballare e aver sollevato il foglio insieme agli altri ragazzi, è stato molto divertente scoprire che nessuno avesse idea di cosa stessi facendo e di cosa significasse calpestare un foglio pieno di pigmenti».

Uno dei ragazzi coinvolti ha detto che, prima della performance, non aveva “mai ballato da solo” nella sua vita. Nel rapporto tra il ballo e i performer con cui hai lavorato finora, quali considerazioni hai raggiunto?

«In tutti i casi, il ballo è sempre stato un momento di condivisione sincera, naturale, dove era importante che i protagonisti si sentissero liberi di esprimersi autenticamente. In genere non è facile, devo adattarmi completamente allo spazio, al momento e ai performer, voglio che sappiano di avere tutta la mia attenzione e il mio rispetto: solo così riescono ad aprirsi. Soprattutto in questo caso, ho capito che non è facile ballare davanti a una telecamera per la prima volta, è come aprire il cuore a uno sconosciuto. Per questo, per me è un premio e un privilegio ogni volta che qualcuno – soprattutto se non ha mai ballato da solo – mi regala qualcosa di così intimo».

Domanda politica: si parla sempre più spesso dell’arte come strumento per “decolonizzare”. Dato che vivi e lavori tra l’America Latina e l’Europa, credi che i tentativi occidentali in questo senso ci stiano davvero riuscendo o che il colonialismo abbia solo cambiato forma?

«Credo che il colonialismo abbia solo cambiato forma: continuiamo a seguire modelli colonialisti ben radicati nelle nostre culture e abitudini. Siamo in un processo continuo di dis-apprendimento di questo sistema, e abbiamo ancora moltissima strada da fare. Però voglio anche essere ottimista, e credo che l’arte possa essere un ottimo strumento in questo senso. Anch’io, come singolo, cerco spesso di dis-apprendere e svincolarmi da certi schemi, e spero che le mie opere possano contribuire alla trasformazione sociale in qualche modo».

Per chiudere: la tua opera si chiama Cuando la esperanza danza. In che modo l’arte oggi può diventare una forma di speranza concreta e non solo un’utopia fine a se stessa?

«La speranza, nonostante sembri una cosa astratta, può essere uno strumento concreto di lotta, evoluzione e resistenza. L’arte, dal canto suo, è capace di trasportare pensieri, concetti, metodi e mezzi per un fine comune. Quando si fondono, l’arte e la speranza hanno il potere di unire e di creare legami tra persone indipendentemente da etnie, credenze o culture. Si tratta di un linguaggio universale molto potente, capace – io credo – di creare un domani migliore».

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