La campagna, il cielo, il verde e il sole che scintilla alto nel cielo mi restituiscono una pace difficile in città. La natura, ignara della follia scatenata dal Covid tra gli umani, va avanti imperterrita. Le nuvole si stemperano sui colli verde scuro, il cielo vi si adagia sopra,
i campanili lo punzecchiano e anche qualche traliccio elettrico.
Poi gli alberi e le foglie in primo piano, secche ma brillanti, addirittura palme.
Sto andando a Bergamo in treno di persona, a incontrare di persona i miei studenti di performance all’Accademia Carrara. Fa quasi caldo, il cielo arriva a terra, il sole mi scalda. Chiudo gli occhi e mi rilasso.
Mi scordo la lunga lista di cose che non ho visto. Di cose che non vedrò.
Posso partire con La Traviata alla Scala a settembre, diretta da Zubin Mehta.
Una Traviata senza scene, senza costumi, senza regia, senza luci.
Senza Traviata c’è chi mi ha fatto notare, coro soltanto. Ascòltatela a casa mi hanno detto anche i melomani più incalliti. Non ho trovato nessuno, nessuno che volesse venire a vederla, a sentirla anzi. L’ho ascoltata tutta l’estate dal mio computer e volevo vederla dal vivo. Alla Scala non han nemmeno fatto la prova generale.
Niente. Non c’era niente da provare, oltre all’orchestra, due ore e mezza in tutto.
Addio Violetta, addio Germont, Annina alla prossima.
Venerdì scorso, sole in città e una manifestazione per riaprire cinema e teatri. Andrea Panigatti è lì, mentre mi risponde al telefono per raccontarmi di Pandora, lo spettacolo della sua compagnia che non ho visto al Franco Parenti ai primi d’ottobre.
Quel giorno, alle 18.45, una mail letale: sua figlia è in quarantena per compagna di scuola positiva. Che fare? La mia prima volta.
Niente teatro, la mia coscienza – c’è? – ha deciso per me. Figlia tamponata il giorno dopo insieme alla scoperta delle regole della regione Lombardia: se non è contatto diretto, liberi tutti. Muy bien, dopo aver scoperto che mia figlia è negativa, un sospiro di sollievo.
Il teatro, nel dubbio, molto a malinquore l’ho saltato.
Pandora è stato commissionato al Teatro dei Gordi, la sua compagnia, dalla Biennale di Venezia, prima del Covid. Il tema, la censura. Poi il Covid, la chiusura, la cesura dal mondo reale, l’apertura di zoom. Pandora è nato su zoom perché insieme non si poteva provare, ma si poteva lavorare.
Pandora è il terzo spettacolo di una trilogia sulla soglia, che i Gordi hanno sviluppato in tre spettacoli: Sulla morte senza esagerare, che non ho visto; Visite, che ho visto e rivisto e Pandora appunto che il Covid mi ha impedito di vedere al Franco Parenti.
Peculiarità dei Gordi è che usano le maschere e raccontano mille storie in una.
Sulla morte senza esagerare è ispirato da Wislawa Szymborska, una delle mie poetesse preferite. Le soglie dicevamo, la prima è la morte, almeno credo, la seconda, in Visite è quella di una stanza da letto in cui si consuma molto poeticamente e molto prosaicamente tutta la nostra vita, uno spettacolo fantastico!
Pandora invece succede in un bagno pubblico. In 65 minuti passano 50 personaggi, maschere diverse per gli attori che diventano un licenziato, un maniaco, un imbianchino, un trampoliere, uno che si è tagliato un dito, uno che urla, una che, uno che, una che…
Il bagno pubblico è la soglia tra il prima e il dopo, la pausa tra un essere e un divenire
Ce lo vedremo al prossimo giro di libertà.
È stato poi il turno di ZONA K. Sul loro sito leggiamo: “cosa significa, dal punto di vista della programmazione, tornare a teatro dopo mesi di lockdown? Come si costruisce una stagione ai tempi del Covid?”
Le ragazze di ZONA K inventano scenari e diversificano l’offerta, mettono a punto un questionario per capire le nuove esigenze del pubblico, che risponde curioso ed entusiasta di provare forme di spettacolo alternative a quelle tradizionali. Lo aveva già fatto con la lezione aperta di The Momentary Now, la mia scuola di performance, ai giardini Pippa Bacca, una delle prime sperimentazioni all’aperto post quarantena.
Quindi insieme a nientemeno dei Rimini Protokoll e alla Casa degli Artisti, alla riapertura ZONA K invita alcuni giovani artisti a misurarsi con domande come: Dobbiamo pensare a un mondo nel quale l’arte non avrà più un ruolo? Possiamo immaginare una realtà che annulli l’esistenza dell’arte e di chi vi lavora? Che relazione può intrattenere l’arte con ognuno di noi in questo stato di crisi? Sta per finire qualcosa che è diventato da tempo stantio? Una crisi così profonda può essere un’opportunità?
Gli artisti rispondono con una camminata di due ore in città a cui non ho potuto assistere perché è stata annullata. Si chiama FASE NOVE // Assolo Urbano e invita a porsi queste domande mentre si attraversa la città. Nove luoghi importanti per l’arte a Milano – alcuni molto conosciuti, altri meno – diventano il palcoscenico di altrettante installazioni audio che, con interviste a diversi esperti, rispondono a una domanda provocatoria: Perché esiste l’arte?
Riccardo Muti si è rivolto a Conte per spiegarglielo. Per fargli capire che la cultura è nella nostra natura, che senza, le persone, come piante, avvizziscono.
Caro maestro, a noi interessano le curve, gli ha risposto il capo di stato, e non quelle di Sofia Loren come si poteva pensare ai tempi del Berlusca, ma la mera statistica, quella a cui la scorsa estate si son dimenticati di pensare. Si son presi una meritata vacanza i nostri governanti, poverini, dopo tutta la fatica di non pensare al Covid.
Ora, stanchi di tanto pensare, ci rinchiudono di nuovo e ledono i nostro diritto al pensiero con slogan che impestano la città come: Senso di colpa o senso di responsabilità?
Le domande, che, insomma, vanno fatte a loro.
E per questo motivo che si manifesta.
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