Il 23 giugno è apparsa a Milano nella sala principale di Spazio Gamma, per il tempo immanente di una mezzora, una canzone composta da una popolazione di voci. Una polifonia di una moltitudine composta da sound footage che hai estrapolato da video di cover, innesti strumentali tuoi, la tua voce e i nostri cori, forse imprevisti. Mi interessa molto il binomio contraddittorio che hai innescato: se da un lato la schizofrenia musicale ha inondato lo spazio con sinfonie discordanti, dall’altro ti sei fatto carico di una moltitudine di soggettività mediante un mantra in continua lotta con il caos prodotto dalle casse, invitandoci incessantemente a cantare. The Song inoltre, come hai esplicitato, è la nostra canzone, aperta ad ogni tipo di riconfigurazione. Come nasce questo interesse nell’innescare un microcosmo sempre a rischio, sempre in lotta per non essere perduto nel caos?
«Ogni microcosmo è in continua riconfigurazione e vive con la promessa costante della dissoluzione. È proprio questa costante che fa emergere qualcosa di immutabile, che in questo caso è paradossalmente la mutevolezza stessa. Volevo far vivere entrambe queste forze: la ripetitività del ritornello esalta la differenza della musica, e viceversa. Sono due movimenti opposti che agiscono in contemporanea e formano un unico movimento. Ma cantare e ripetere il ritornello è stato anche un modo per rassicurarmi e trovare rassicurazione nel pubblico e trovarla tutti e tutte insieme. Perché la vita è dolorosa e aprirsi al caos è molto doloroso e non sarei sincero se non registrassi in me, e nelle persone che conosco, una legittima tendenza a cercare un ordine, qualcosa di stabile e prevedibile. Un po’ di tranquillità. È stato come cantare una ninna nanna».
Sono giorni che canto: “We must move on and sing our song”. La struttura della performance si è in un certo modo piegata all’imprevedibilità dell’evento e mi pare ci sia stata fin da subito un’attenzione al carattere collettivo dell’enunciazione — una concatenazione, una combinazione di parti capace di formare un insieme solo attraverso il canto, producendo un dispositivo di pluralità. Per Bifo il ritornello può proteggere dal vento caotico dell’infosfera, avevi previsto in un certo senso di proteggerci da qualcosa attraverso il coro?
«Molto bello il termine “dispositivo di pluralità”. È così che lo ho inteso effettivamente: un canto che potesse richiamare a sé il molteplice, qualcosa di unitario e eterogeneo, dal momento che ha coinvolto più persone. Come i canti funebri, le lamentazioni o le work song. Un gruppo di persone, ognuna con le proprie specificità, si unisce in unico canto che si ripete. È un modo per integrare la propria soggettività all’interno di una soggettività plurale, per resistere tutti insieme alla dissoluzione del mondo. E credo che proprio questo sia il senso protettivo del ritornello: percepire nello stesso momento la trasformazione e la ripetizione, la propria unicità e la perdita della stessa, la morte e la catarsi. È una protezione dal dolore. E in qualche modo, dal momento in cui avete iniziato a cantare siete voi che avete protetto me. Mi viene in mente Dylan Thomas che scrive “and death shall have no dominion”».
Hai una particolare attenzione nel calibrare l’utilizzo della parola attraverso la voce smantellando e ricostruendo l’apparato testuale che compone il tuo lavoro. Inoltre c’è stata un’inversione: a differenza dell’opera Le Voci, in cui un’unica voce si moltiplica diventando un coro plurimo, qui pare che sia la tua presenza invece a condensare e catalizzare il coro, attraverso una riduzione degli obiettivi concettuali del tuo progetto in termini testuali. È così?
«Il testo va superato, e vale per ogni forma d’arte che utilizza la parola. Non devono esserci distante tra il significato del testo e la melodia del canto, l’intonazione imperfetta, la voce rotta.
E sì, mentre con Le Voci il suono si frammentava verso l’esterno, qui si è generato un movimento opposto di condensazione, La pluralità eterogenea di suoni (che tra l’altro sono stati prodotti da decine di persone diverse, abitanti di remote stanze di internet) ha confluito nel canto e nella mia figura. Ma ancora, i movimenti opposti sono lo stesso movimento. Sono stati due atti complementari di un medesimo gesto. L’idea è proprio quella di andare al di là dei concetti di uno, molteplice, interno, esterno, caos e armonia».
Ad oggi The Song è stata cantata una sola volta, non ci sono altre date previste nel tour. Prevedi di ripresentarla?
«Ho voluto non ripetere la performance perché non sopporto l’idea di finzione e di rappresentazione. E ripeterla avrebbe voluto dire proprio questo, come a teatro. Ogni ripetizione marca la distinzione tra arte e vita. Io l’ho intesa solamente come una situazione, un qualcosa che succede tra le altre cose che succedono. Quello che cantava era il Cantante ma anche Luca Marcelli.
Detto ciò, mi piace l’idea di “partire in tour” e portare The Song in altri luoghi, e ogni volta creare una rottura iniziale, trovarmi in una situazione scomoda e poi cercare di superarla tutti insieme. Ma il 23 giugno io non avevo idea di come sarebbe andata, avevo la vertigine dell’abisso e questo era essenziale; ora invece so che ce la posso fare, e questo potrebbe rendere il lavoro meno sincero, se lo riproponessi. Quindi, in definitiva, non lo so. Mi avvalgo del diritto di contraddirmi, eventualmente».
Per chiudere, la scelta della giacca con le paillettes era perché volevi riflettere il pubblico che avevi intorno? La sensazione era di avere di fronte un vettore luminoso capace di far fuoriuscire da una realtà avversa.
«Non avevo pensato all’idea di riflettere il pubblico! Volevo indossare qualcosa che fosse contemporaneamente fuori luogo e innocente. Come un signore di mezza età che si iscrive a un corso di chitarra e suona al saggio di fine anno insieme a persone con 40 anni in meno. Per lui è un momento importante e si veste bene, ma evidentemente c’è una stonatura. L’importanza che dà all’evento non è in linea con la percezione generale. Questo può far ridere, ma al di là della risata c’è della tenerezza, perché si espone al ridicolo. Anche io ho voluto espormi al ridicolo e mostrarmi fragile e mortale e innocente. La giacca argento/oro mi sembrava che racchiudesse queste dinamiche, che sono poi le fondamenta dell’opera stessa».
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