La storia narra di Ned Ludd, tessitore che proveniva dal villaggio di Anstey presso la città di Leicester. Non sappiamo se a causa di una punizione corporale inflitta per pigrizia o per il ludibrio dei suoi compaesani, fatto sta che il giovane tessitore, in un “impeto di passione” decise di distruggere due telai meccanici. Riportata dal Nottingham Review del 20 dicembre 1811, la storia assunse i tratti di leggenda, perché Ned divenne il simbolo dei luddisti inglesi di inizio ‘800. Workers sabotatori di telai e altri macchinari industriali, ritenuti causa di sfruttamento e disoccupazione tra il proletariato urbano inglese. Ora, non sappiamo se l’impeto di Geoffrey Huntley sia stato guidato dalla stessa passione e sete di giustizia di Ned. Il giovane programmatore australiano, infatti, ha deciso di caricare sul suo sito NFT Bay – ideato sulla falsariga di Pirate Bay, noto sito svedese di file sharing nato nel 2003 e che continua a diffondere film, videogiochi e musica protetti da copyright – un archivio di 17 Terabyte con migliaia di immagini collegate a NFT, tra cui le collezioni di arte generativa più prestigiose (CryptoPunks, Bored Ape Yacht Club, Lazy Lions, tra le altre). Il concetto è però lo stesso. Fermare con tutti i mezzi una nuova tecnologia che, a dire del programmatore australiano, sta rovinando l’ambiente in cui viviamo.
«Gli NFT altro non sono che hyperlink verso immagini solitamente ospitate su Google Drive o altri webhost. Potete cliccare il pulsante destro e salvare: sono immagini standard. Le immagini non sono contenute nei contratti», ha spiegato Huntley. Un NFT, un non-fungible token, è una sequenza di bit registrata su una blockchain e rappresenta un diritto di proprietà di un contenuto digitale, non duplicabile grazie a crittografia.
Qualcuno ha parlato di reato, di furto di beni ma, tecnicamente, quella di Huntley è «Una raccolta di informazioni», facilmente recuperabili con poche ricerche su Google. Insomma, solo tanta pazienza e tanto hard disk. Un’azione ai limiti del Situazionismo digitale, un po’ Ned Ludd, un po’ Robin Hood, operata nel tentativo di decrittare, più percettivamente che economicamente, questa forma “oscura e invasiva” del mondo NFT. Ma con quali risultati?
Il giro di affari dei NFT nel 2020 è stato intorno ai 400 milioni di dollari, arrivati a 2,5 miliardi nel 2021. Comunque pochi rispetto ai 65 miliardi del mercato ufficiale dell’arte ma con livelli di crescita superiori (e un interesse accesissimo delle gallerie blue chip, come la plenipotenziaria Pace). Per Claudia Cimaglia, co-fondatrice di Aesthetes, società che crea collegamenti tra opere in real life e blockchain, «Occorre non confondere il macrotrend, legato all’innovazione degli NFT come strumento di certificazione, con l’hype verso gli NFT legati a opere digitali. Negli scorsi anni abbiamo assistito certamente a una fase di eccesso di euforia». Difficile tenere i piedi per terra quando Mike Winkelmann, in arte Beeple, racimola poco meno di 104 milioni di dollari con tre NFT (Everydays – The First 5000 Days, 69,3 milioni, Human One, 29,8 milioni, Crossroads, 6,6 milioni).
«Abbiamo distrutto il mondo per questo?», si chiede Huntley, parlando del suo sito NFT Bay. L’idea non è tanto violare il principio di proprietà quanto mettere in discussione tutta l’architettura concettuale degli NFT. Ma in fondo il discorso è un altro. La reazione del programmatore australiano parte dal presupposto (novecentesco?) che l’arte sia visuale, stimolazione del sensibile, dunque emozione estetica. Se rimane difficile emozionarsi per i famosi animaletti digitali a pochi bit auto-generati da algoritmi, è bene ricordare le parole del filosofo Martin Heidegger: «L’opera (della verità) non agisce per iniziativa dell’artista ma tramite l’artista».
Siamo ormai immersi nei mondi multidimensionali delle interazioni in rete, nei social, nei metaverso, nelle islands dei giochi online, nei mercati finanziari, nell’infosfera e nell’entertainment globale. Realtà che si espandono ogni giorno, che producono mutamenti materici e sociali che ci investono in toto, nostro malgrado.
Se con il web 3.0 (IA, algoritmi, data protection, indicizzazioni) l’idea di una rete Internet liscia, aperta, orizzontale e di tutti, risalente ai primi 2000, è definitivamente tramontata, con gli NFT si tenta di risolvere un problema trascinatosi per tutto il ‘900: superare il limite della “riproducibilità” dell’opera d’arte descritta da Walter Benjamin negli anni ’30, nel tentativo di recuperarne quell’aura, se non di fascino e fremito, quantomeno di unicità sostanziale.
Una unicità non visuale (non potrebbe esserlo nell’era dello schermo) ma contrattuale, certificabile attraverso il registro distribuito di una blockchain (in particolare Ethereum, seconda per giro d’affari solo a Bitcoin). Questo determina un cambio di paradigma antropologico, più che estetico e artistico. Se per Benjamin l’arte nella sua riproducibilità poteva essere sfruttata dai regimi dittatoriali per produrre forme di dipendenza/influenza nelle società di massa, qual è, allora, il pubblico o il fruitore “riprodotti” da queste nuove forme di espressione? Se risulta estremamente facile banalizzare scimmiette, cryptopunk e leoni auto-generati, più complicato risulta negare la funzione di gate-keeper di questi prodotti verso nuove forme di interazioni estetiche, sociali ed economiche, dunque politiche.
Gli NFT sono come «spunti per una conversazione», suggerisce il filosofo dell’arte Roberto Casati nella sua teoria meta-cognitiva sui contenuti digitali non fungibili. E che producono forme di comunicazione poste su più livelli e più dimensioni. Metaverso videoluduci come Decentraland e Sandbox (bundles, oggetti digitali unici, suits, cappellini, vestiti, armi, apprezzamenti di terra o palazzi e strutture sotto forma di NFT); le piattaforme come Art Blocks, usate dagli artisti che praticano arte generativa e che sfruttano algoritmi con cui possono “coniare iterazioni” tra opere e i fruitori. Ma anche strutture nel mondo “reale”, dall’intera città di Seoul a una mega villa di Miami, al Seattle NFT Museum, primo museo dedicato interamente agli NFT. Insomma mondi in espansione.
E in questi collezionisti, frequentatori abituali ma anche appassionati di arte digitale classica, alla ricerca di un ID sociale ed economico, di uno status con cui entrare in contatto con le community organizzate attorno alla Crypto Art. L’importate è possedere un pezzo di blockchain, accumulare Token di più lavori, essere membri attivi di opere NFT che diventano quindi veri e propri centri di governance, di comunità virtuali fatte di contatti, lobbying e relazioni di livello. Qui, comunicazione, blockchain, certificabilità dell’opera e dell’identità collassano in un unico conglomerato di senso, operatività e fungibilità. Al riparo dai sistemi ufficiali di gestione del mercato dell’arte (gallerie, musei, fondazioni, soggetti pubblici) ma, inevitabilmente, invischiati in un sistema ancora più simbiotico, che risponde a logiche e flussi globali, comunicazionali e finanziari, prima che artistici o di ricerca estetica. Non esiste più un “fuori”, un esterno (con tutto il portato di dipendenza, alienazione, bassa creatività e attitudine al rischio che ne può conseguire).
Non esiste qui un diritto alla “pigrizia” rivendicato da Ned Lud. E come stucchevole appare il tentativo di Huntley di sottrarre immagini, forme e materia a un sistema che ormai massivamente lo avvolge e lo stritola, così dobbiamo assumerci di questo sistema crisi speculative, aggiustamenti, rimbalzi. Ma di cui inevitabilmente non potremo mai liberarci. O colpirli con un colpo di martello.
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