Categorie: Attualità

Promemoria per un futuro meno cupo

di - 16 Aprile 2020

Difficile, oggi, parlare ancora della situazione che stiamo vivendo. Si ha l’impressione che – limitatamente al fronte della riflessione filosofica, politica, culturale – allo stato delle cose tutto sia stato già detto, più o meno onestamente, ragionevolmente, decentemente. E, come si dice, “bisognerà attendere lo sviluppo degli eventi”. Ma pur nell’insuperabile incertezza di quel che sarà, quest’attesa potrebbe essere fatale, e potremmo dover subire le consuete risposte già subite negli ultimi decenni, dopo ogni “crisi”, ma in dosi più massicce e amare. Nelle quattro cartelle che ho a disposizione proverò allora soltanto a stilare un promemoria in quattro punti, una lista grezza di alcuni dei nodi principali venuti al pettine, e che sarebbe auspicabile comprendere sempre di nuovo, in un dibattito pubblico e partecipato. Tenendo ben a mente, però, che il compito più urgente è arrivare a una verifica concreta delle conclusioni che da tale processo di approfondimento emergono con più chiarezza, associandovi fin da subito un’azione concertata, che forse in questi tempi inimmaginabili (gli “interesting times” della falsa maledizione cinese che dava il titolo all’ultima Biennale di Venezia) potrebbe prospettarsi con più realismo di qualche mese fa.

Tracey Emin, My bed, 1998

Una lente di ingrandimento

Tutti vediamo come il coronavirus funzioni come lente di ingrandimento attraverso cui osservare le nostre forme di vita e le loro contraddizioni (mentre ciò che cade fuori dal fuoco della lente sembra essere improvvisamente scomparso): le gigantesche disuguaglianze, per cui non è affatto vero che siamo tutti sulla stessa barca, dato che c’è chi annaspa e chi possiede panfili; i danni dello smantellamento dissennato della sanità pubblica e della cieca o compiaciuta umiliazione della ricerca scientifica; il valore dei lavori di cura e di quelli della più elementare manovalanza stagionale e “clandestina”; l’inganno della “invasione dei migranti” (a cui ha creduto almeno il 40% degli italiani, stando ai sondaggi pre-coronavirus, gli stessi che magari oggi cantano ai balconi e dicono di essere diventati buoni); la forza delle mafie; la competizione tra stati “alleati” e la vitalità dei profittatori (vedi per esempio l’accaparramento delle mascherine, la speculazione e le truffe); gli aiuti internazionali pelosi e la guerra tra le potenze emergenti sullo sfondo del declino degli Stati uniti… L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma si tratta di cose che sono sotto gli occhi di tutti, insieme a molte prove di generosità e solidarietà.
Al di là delle specifiche questioni – gravissime ed evidenti – la lente funziona anche per vedere lo stato di salute del nostro ethos, di cosa si è installato come “senso comune” anche proprio tra chi fa di mestiere lo studioso, l’osservatore, la “coscienza critica” della nostra vita comune: prendiamo proprio gli interventi circolati in questi giorni (siti, riviste on-line, gruppi facebook ecc. ne raccolgono liste nutrite), perché offrono un esempio – non trascurabile, dato che rivela la qualità culturale dell’aria che respiriamo – di uno degli effetti di ingrandimento prodotti dalla pandemia.
Più o meno dalla fine di febbraio, filosofi e studiosi anziani e/o affermati hanno proposto diagnosi e prognosi, per lo più infauste, applicando alla nuova situazione categorie già elaborate altrove e associate ai loro nomi: per un verso, è inevitabile che sia così, perché non ci si possono inventare concetti dal nulla. Ognuno attinge alle proprie risorse concettuali e interpretative, cercando di metterle alla prova di fronte alla nuova realtà, e di elaborarle o modificarle per renderle più adeguate. Per altro verso, le categorie risultano spesso spuntate, stiracchiate, e tra le righe si insinua talvolta il vezzo di presentarsi come profeti inascoltati, finalmente vendicati dal verificarsi degli eventi. Ma questi intellettuali di varia provenienza godono, come me, di uno stipendio o di una pensione abbastanza sicuri, e possono permettersi un po’ di calma, misura e understatement. Lo spettacolo più doloroso e sintomatico lo offrono invece i giovani o quasi-giovani economicamente ed esistenzialmente più deboli, che entrano in lizza per denunciare e fustigare un sistema – il solito sistema neoliberale sempre risorgente dalle sue ceneri, con le sue parole d’ordine di competitività, meritocrazia, brandizzazione di sé stessi, superlavoro, produttività, profitto, “mors tua vita mea”, “divide et impera” ecc. – incarnandone però al meglio, malgrado tutto, l’ideologia e le pratiche. Sono indotti “naturalmente” a sgomitare, a tesaurizzare ogni loro secrezione cerebrale, talvolta imitando certi toni perentori o oracolari dei loro maestri, glorificandola sul loro curriculum vitae e sul profilo autoprodotto di Wikipedia. E cos’altro possono fare se è così che si viene allevati e valutati, se è così che si può, forse, sopravvivere nelle nostre accademie? Però, come potranno, questi giovani o non-più-giovani, precari e sotto continua pressione e ricatto, essere i reali protagonisti del cambiamento che professano? Certo, alcuni di questi stessi giovani, provano anche altre strade – nei movimenti contro il disastro climatico e la distruzione della biodiversità, nelle associazioni che studiano ed elaborano modelli economici alternativi, nel volontariato, nella disobbedienza civile, che comincia dal rifiuto personale, anche a costo di grandi sacrifici, di ubbidire alla logica sterile e mortificante della competizione e del profitto ad ogni costo e in ogni sfera vitale. Ma è raro che vengano valutati per questo e, quando non sono dileggiati o paternalisticamente tollerati, è molto più frequente che siano misurati sulla loro “visibilità” insulsa ma “spendibile”.

Adrian Paci, Centro di Permanenza Temporanea 2007 16:9 video proiezione – still da video. Courtesy of the artist and kaufmann repetto, Milano/New York

Il possibile e l’impossibile

Un altro nodo complesso ingrandito dalla lente virale è quello della relazione tra il possibile e l’impossibile: per un verso, si è detto, riscopriamo l’impossibile, la realtà in carne e ossa, i limiti del nostro corpo, la fragilità e la vulnerabilità, il nostro essere natura (abbondano i libri recenti, ma a me sono tornati in mente i nomi di Leopardi, Timpanaro, Anders…); dall’altro, tante presunte impossibilità si rivelano fittizie: non solo l’impossibilità di essere colpiti duramente dalla sorte o dalla natura nel “nostro” mondo (di colpo le sciagure di questa portata non accadono più solo agli “altri”), ma le presunte impossibilità finanziare si sono rivelate a tutti per quello che sono, scelte politiche e non “tecniche” (o scelte tecniche all’interno di un orizzonte politico molto limitato, asfittico, cieco all’interesse dei più e alle conseguenze di medio e lungo termine). Naturalmente, la lente ha anche improvvisamente abbandonato, fuori dalla sua area, condizioni che non osiamo quasi neppure più nominare, ma che il virus non ha fatto certo scomparire: i campi profughi, le decine di guerre in atto, la produzione di armi, gli orrori perpetrati dall’Italia e dai suoi alleati, quotidianamente, nella “normalità” di ieri a cui si vorrebbe tornare il più in fretta possibile (i lager libici, l’abbandono dei curdi, la tolleranza per i paradisi fiscali…): qui bisognerebbe riflettere su cosa accade quando la vita, intesa come sopravvivenza, viene assunta come valore assoluto, trasformandosi in alleata dell’assolutizzazione della morte: “mors tua vita mea”, appunto: ma che sapore ha la “vita mea” se implica la “mors tua”? E, naturalmente, nell’ombra è scivolata la crisi climatica e la distruzione della biodiversità, come se bastasse qualche argomento contro un legame causale diretto tra queste crisi e l’attuale pandemia per dimenticare, come già gli avvertimenti dei virologi, i moniti e le previsioni dell’IPCC dell’ONU (non i “giovani estremisti” di XR o Fridays for future), che prevedono sofferenze di proporzioni “inimmaginabili”, ma che forse proprio oggi potremmo cominciare tutti a immaginare concretamente.

Un’immaginazione rigenerata?

Ecco, forse il coronavirus ha almeno questo di positivo: non dobbiamo più fare esercizi di estensione della nostra immaginazione morale per renderci conto che le sciagure lontane (nel tempo o nello spazio) sono qui, adesso, in tutta la loro realtà. Ora ce l’abbiamo sotto gli occhi, e la percezione di quel che accade a casa nostra potrebbe contribuire a rigenerare un’immaginazione pigra. Certo, questa “visione”, questa presa di coscienza – se si sta effettivamente verificando – rischia di non essere duratura. È necessario allora non farsi trovare impreparati per far sì che – se e quando l’emergenza attuale sarà placata – questa voragine apertasi nella (a)normalità dei passati decenni non si richiuda con le solite ricette e le solite minacce.

Fare rete

Ci sono associazioni, gruppi di persone, organizzazioni che fanno ben sperare: mi vengono in mente, tra i molti possibili, due nomi, il Forum Diseguaglianze e Diversità (che fa riferimento, tra gli altri, a Fabrizio Barca) e Diem 25 (lanciato da Yanis Varoufakis). Ciascuno avrà le sue riserve, su questo o quel punto, come sempre. Ma questo sarebbe il momento in cui queste e le altre centinaia di associazioni dovrebbero stringersi in un fronte comune su alcuni punti irrinunciabili, fare rete, giocare d’anticipo su chi pensa di tornare alla “normalità” (o peggio, molto peggio), e costringere i “decisori”, con la partecipazione di molti, a vincolarsi fin d’ora – ora che anche i potenti hanno paura, ora che sono sotto gli occhi di un’opinione pubblica sofferente e maggiormente capace di immaginare l’inimmaginabile – a misure e programmi economici e sociali diversi da quelli subiti negli ultimi decenni. (Se ciò suona troppo vago e velleitario, suggerisco, per cominciare, il breve libro dell’economista Ann Pettifor, The Case for the Green New Deal, offerto in ebook gratuitamente, in questi giorni, da Verso; le proposte elencate dal Forum DD, o i 10 punti del Green New Deal di Diem25, scaricabili dai rispettivi siti). Se ci attiviamo e ci uniamo, abbandonando la nostra “servitù volontaria” e motivi di divisione secondari, forse potremo costruire un movimento europeo e gettare il seme di un futuro meno cupo.

Insegna Estetica a l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha insegnato a lungo negli Stati Uniti ed è docente dell’Istituto Freudiano di Roma. Oltre ai temi classici dell’estetica analitica e continentale, è interessato ai problemi filosofici e politici connessi all’arte contemporanea e ai nuovi media. Tra le sue pubblicazioni in volume, La filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare, Laterza, 2012; Estetica analitica. Un breviario critico, Aesthetica, 2008; Storia filosofica dell'ignoranza, Laterza, 2003; Il ‘non so che’, (con P. D’Angelo), Aesthetica, 1997; Sapienti e bestioni, Pratiche, 1995; Adolf Loos, De Donato, 1988.

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