Nel tardo pomeriggio del 5 marzo 2022, un gruppo di artisti e attivisti ha fatto volare centinaia di aeroplanini di carta dalle iconiche rampe del Guggenheim Museum di New York, nell’ambito di una manifestazione per richiedere l’istituzione della No Fly Zone sull’Ucraina. La performance non era stata autorizzata dal museo che, solo pochi giorni fa, aveva annunciato le dimissioni di Vladimir Potanin, tra gli oligarchi più ricchi della Russia, dal suo board. Secondo quanto riportato da alcuni organizzatori, la sicurezza ha impedito l’accesso all’edificio a due membri del gruppo, che era composto, tra gli altri, dall’artista moldava Bea Fremderman e da Anton Varga, le cui opere sono state esposte anche in Italia, nel 2015, nell’ambito della Biennale d’Arte di Venezia, e nel 2017, sempre in Laguna, come finalista del Future Generation Art Prize 2017 promosso dal Pinchuk Art Centre di Kiev.
«Vogliamo attirare l’attenzione sulla guerra russa in Ucraina», hanno dichiarato gli artisti a Hyperallergic. «La brutalità militare di questa guerra condotta da Vladimir Putin colpisce l’Ucraina, tutta l’Europa e, in definitiva, ogni Paese che viene continuamente oppresso della violenza di Putin. Riteniamo che l’importanza di chiedere alla NATO di chiudere il cielo, stabilire una No-Fly Zone e uno spazio aereo umanitario, per prevenire una potenziale catastrofe nucleare mondiale, sia urgente e fondamentale», hanno continuato.
I 350 aeroplanini di carta fatti volare nel Guggenheim, in realtà , erano dei volantini, sui quali si potevano trovare esplicitate le motivazioni del gesto: «Questi aerei sono fatti di carta. Ma cosa sarebbe successo se fossero stati di acciaio e carichi di bombe, sulle teste di coloro che ami», si legge. Una intestazione forte, che ricorda certi meccanismi linguistici della propaganda di una volta, incentrata sulla disseminazione incontrollata – a cielo aperto verrebbe da dire – delle forze irrazionali della paura. Il testo, che è rivolto al Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, continua chiedendo, tra l’altro, un embargo totale alla Russia e il biocottaggio di tutte le relazioni e le manifestazioni culturali. Una guerra con altri mezzi, insomma, ma quando ci si collega al sito correlato al codice QR, si apre un banner con una scritta bianca su campo nero, “War is not the answer”, con tanto di cuoricini, per “supportare il diritto di tutto il mondo a vivere in pace. Vuoi unirti a me?”. Come dire di no? Sulla pagina web, che è ospitata su Linktree, è possibile effettuare donazioni alla Croce Rossa Internazionale e Save The Children ma anche all’Esercito Ucraino e ad altre organizzazioni meno chiare, come “Come Back Alive”, una ONG che, tra le sue attività , oltre al supporto psicologico per i militari, prevede anche corsi di addestramento per cecchini (ne scrivevamo anche qui).
D’altra parte, la No Fly Zone è caldamente richiesta dal Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelens’kyj, che nei suoi video diffusi sui social network continua a inneggiare alla resistenza a oltranza contro l’esercito della Federazione Russa e alla corsa alle armi da parte dei civili. Ma già diversi commentatori hanno messo in evidenza come l’attuazione di una No Fly Zone possa portare a una rapida escalation nel conflitto.
La No Fly Zone è un blocco totale dei voli su un’area, da far rispettare anche con l’uso della forza. Il provvedimento fu preso per la prima volta durante la guerra in Iraq del 1991, quindi nel 1992, nel conflitto in Bosnia-Herzegovina. L’ultima attuazione risale al 2011, in Libia. In questi episodi, ad adottare la risoluzione della No Fly Zone è stata l’ONU e, nel caso specifico, è evidente come la mossa rappresenterebbe una dichiarazione ufficiale di guerra contro la Russia. A quel punto, infatti, dovrebbero scendere in campo, anzi, alzarsi in volo, i caccia della NATO, ingaggiando le controparti della Russia che, allo stato attuale del conflitto, difficilmente accetterebbe di buon grado la No Fly Zone, lasciando le truppe di terra senza la copertura dall’alto. Il risultato è tanto facilmente prevedibile quanto difficilmente quantificabile, sul piano inclinato di una guerra totale e militare tra l’Occidente e la Federazione Russa.
Tranne che nelle strategie comunicative di propaganda e nelle narrazioni uniformate, dove l’evento bellico viene banalizzato camuffando il suo rischio implicito su una base immaginativa condivisa di accettazione e abnegazione, la guerra non è affatto simile al gioco, non si torna indietro – sembra ovvio, eppure la propaganda punta esattamente su questa mistificazione – e le sue regole e le sue conseguenze non sono uguali per tutti. Non lo è mai stata, tantomeno nel contesto attuale, anche solo in riferimento ai livelli di professionismo e sofisticazione drammaticamente raggiunti dagli arsenali e dalle dotazioni militari. In questo caso, soprattutto non è stato un gioco per l’arte.
Che a inneggiare a questo inasprimento del conflitto in maniera così superficiale, con la proposta di un linguaggio radicalizzato e, per di più, attraverso la rimodulazione di un atto ludico, sia stato un gruppo di artisti, sembra almeno controverso, rispetto agli appelli alla pace e alla solidarietà lanciati da tanti professionisti del settore, anche direttamente coinvolti. Abbiamo scritto dei progetti presentati da MAXXI, Triennale Milano e Castello di Rivoli che, per quanto parziali, rivolti alla “voce” ucraina, provano a problematizzare la situazione e ad ampliare il campo. La speranza è che, in un mondo dell’arte e della cultura che da anni ricorre all’utilizzo di termini quali “fluidità ”, “comprensione”, “scambio”, “empatia”, “resilienza”, la porta ermeticamente chiusa alla controparte russa possa tornare ad aprirsi, per evitare il ripetersi di situazioni come quella della censura delle lezioni dell’Università Bicocca su Dostoevskij, al limite del grottesco, se non si trattasse di un dramma spietato e reale.
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