Categorie: AttualitĂ 

Aprire o chiudere al Green Pass? I Musei prendono posizione

di - 2 Agosto 2021

La data fatidica del 6 agosto si avvicina e, dopo il Museo Egizio di Torino, anche la Reggia di Caserta e il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia hanno comunicato ufficialmente la loro decisione: senza Green Pass non si entra. A comunicarcelo, una campagna via Social Network.

Per la Reggia di Caserta, è lo stesso Francesco I delle due Sicilie, magari non il re delle Due Sicilie più famoso ma quello più adatto da reinterpretare in chiave contemporanea, a partire dall’antico ritratto realizzato da Giuseppe Martorelli, in cui il nobile stringe in mano un documento. «Vacciniamoci ca ce pass!», dice il simpatico Francesco, esibendo il prezioso talloncino verde con codice QR che, dopo tanti anni di uso di nicchia e un po’ negletto, ai margini delle App sugli smartphone, è finalmente stato apprezzato per il suo valore.

Per il Museo Etrusco, invece, un lungo post che parte dagli Shardana e arriva alla nostra sicurezza: «Conoscendo la saggezza, gli scrupoli religiosi e la disciplina proverbiale degli Etruschi, si può affermare con certezza che se avessero avuto il Green pass lo avrebbero usato senza scrupolo anche loro». E come è avvenuto per il post del Museo Egizio, i commenti si affollano virali in ogni senso del termine, dall’una e dall’altra parte, con una equa violenza di linguaggio: da una parte, chi augura ai musei di chiudere per sempre e per tutti, dall’altra chi gusta sadicamente le «Lacrime degli ignoranti no vax».

Chi invece ha compiuto una scelta opposta è Fabrizio Masucci, direttore del Museo Cappella Sansevero, a Napoli, che ha deciso di dimettersi dal suo incarico, ricoperto da oltre 10 anni, per protestare contro l’adozione del Green Pass. Nella sua lettera, pubblicata sulla pagina Facebook del Museo (che diversamente da quelli sopra elencati è gestito da un’associazione privata), Masucci ha spiegato che, nei luoghi della cultura, già sono in atto tutte le misure per prevenire il contagio e per grarantire una fruizione in sicurezza. “Alla luce di tali evidenze, constatate dal decisore politico che ha ritenuto e ritiene tuttora di poter tenere aperti i musei, l’obbligo di richiedere l’esibizione del green pass per l’accesso ai musei non è legato a valutazioni di carattere epidemiologico specificamente riferite ai contesti museali, ma è stato considerato esclusivamente uno strumento utile, fra tantissimi altri, allo scopo dichiarato (in sede di conferenza stampa di presentazione, lo scorso 22 luglio, del DL n. 10) di ottenere più numerose adesioni alla campagna vaccinale”, ha scritto Masucci nel post, ponendo l’accento sulla funzione dei musei e dei luoghi della cultura. Che a spostare il punto di vista su questo aspetto sia il direttore di un museo privato meriterebbe un’altra lunga disamina. Comunque, anche in questo caso la discussione si è accesa, pur se con toni meno “calorosi”, rispetto ai commenti degli altri tre musei.

Al netto delle prese di posizione estreme, la questione è foriera di conseguenze e sarebbe utile poterla portare avanti rispettando ognuno le paure e le idee dell’altro, ascoltando con sensibilità. Insomma, si tratta di una pandemia che, pochi mesi fa, ci ha fatto rimanere a casa per intere settimane e le scelte che oggi vengono prese a livello nazionale e internazionale sono la diretta e coerente conseguenza di quelle decisioni. Quella del Green Pass per i musei, nello specifico, è stata discussa negli ultimi giorni, durante la riunione del G20 Cultura a Roma e, secondo quanto riportato dallo stesso Ministro Dario Franceschini, ha trovato accoglienza unanime tra i convenuti.

Insomma, i musei chiudono al green pass o aprono al green pass? La possibilità di accedere a un luogo pubblico della cultura – cioè lo spazio per antonomasia massimamente accessibile e fruibile da ogni individuo a prescindere dalle sue scelte, dalle sue posizioni politiche, etiche, morali, dalle sue condizioni economiche e culturali, dalla sua fedina penale – può dipendere da un “pass”, da una certificazione? Entro quali limiti concettuali e metodologici si può parlare di “discriminazione”, da un lato e dall’altro? Nel senso meno connotato storicamente e più letterale del termine “discrimine”, cioè di scelta netta, sia individuale, secondo la propria responsabilità di fare o non fare il vaccino, che istituzionale, secondo la propria responsabilità di discernere chi può entrare da chi non può entrare.

Chi può decidere quali individui possono fruire di un servizio, non le modalità ma la stessa ammissibilità? Nel caso specifico, di un servizio considerato unanimamente fondamentale per lo sviluppo dell’identità delle persone e dei popoli. A questo punto, anche il settore della cultura, ispirato ai principi universali della condivisione e dell’orizzontalità dei propri beni, si rende, in senso o nell’altro, luogo di una “gerarchia”, tra gli ammessi e non ammessi. Solitamente considerato pacificatore – tranne che per certi aspetti comunque specifici nell’ambito della museografia e relativamente recenti, come nel caso del colonialismo o dell’egemonia di genere di certe collezioni – anche il museo diventa lo spazio di una contesa tra schieramenti opposti.

Il museo è solo una delle espressioni territoriali dello Stato che, attraverso la sua burocrazia, si faceva garante della possibilità di accesso ai beni in egual misura per tutti. Assisteremo alla trasformazione in uno Stato “erogatore”, cioè in un ente che distribuisce o interdice l’accesso a quegli stessi beni? Ricondurre la questione a una necessità sanitaria e contingente non renderebbe giustizia alla portata enorme del momento che stiamo vivendo, che lascerà tracce profondissime tanto negli ordinamenti giuridici che nella percezione degli individui e nei comportamenti e nelle abitudini collettive, nelle categorie di giudizio delle persone verso le altre persone e della società di oggi e di domani.

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