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Che l’Italia sia il Paese con più beni culturali e archeologici al mondo è un refrain che si sente sciorinare spesso e non sempre annuncia una buona notizia. Nel nostro Paese si trovano 60 Siti inseriti nella Lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità – la Cina segue con 59 – e sono circa 4292 i musei aperti al pubblico (dato Istat aggiornato al 2021). Ma la fruizione di questi spazi non sempre è ottimale, conseguenza anche di un atteggiamento che si rispecchia in un paradosso ormai radicato: da un lato vengono magnificati i grandi numeri, soprattutto quando gli assembramenti sono concentrati in giorni specifici – per esempio, le domeniche gratuite –, dall’altro si prova a ridurre le file, con prenotazioni capestro a rigorose fasce orarie e app dall’utilizzo non sempre immediato (e che vanno in crash quando si ricevono troppe richieste). Ma se i fruitori non ridono, nemmeno chi lavora nei beni culturali se la passa tanto bene. La platea è ampia e trasversale, dagli addetti alla biglietteria alle guide turistiche, dagli storici dell’arte agli esperti di marketing, ma molte di queste figure non hanno ancora ricevuto un adeguato riconoscimento professionale.
«Fatte salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate, gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi […] sono affidati alla responsabilità e all’attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale», specifica la legge 110 del 22 luglio 2014, che modifica il codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, istituendo degli elenchi nazionali dei suddetti professionisti.
A fare luce sulla situazione attuale con un focus specifico sugli archeologi, a 10 anni dalla legge 110/2014, un censimento nazionale condotto dall’ANA – Associazione Nazionale Archeologi che «Mostra un quadro in controtendenza rispetto alle risposte fornite nelle precedenti indagini», spiegano.
1080 sono i professionisti italiani coinvolti nell’indagine dell’ANA, un «Campione rappresentativo su un totale di 5-6000 archeologi attivi nel Paese che detiene la più alta concentrazione di beni archeologici al mondo». La professione si dimostra ancora in larga parte femminile (circa il 65,51%), seppur facendo registrare un certo riequilibrio rispetto agli anni passati. Ampia la pletora degli under 40 (63%), alto il livello di istruzione: l’88% ha un titolo post laurea o lo sta conseguendo.
Oltre il 75% lavora nel privato (il 57,34% a partita Iva), come lavoratore autonomo, titolare di impresa o impiegato (a tempo determinato o indeterminato) presso aziende o cooperative. Il restante 25% lavora nel pubblico, ma solo circa il 17% come dipendente. Dal confronto con i precedenti censimenti, il primo svolto nel 2006 e il secondo nel 2011, emerge comunque un’evoluzione positiva: per chi ha conseguito la formazione specifica, l’attività di archeologo è diventata l’unica (76,47% degli intervistati) o quella prevalente (57,32% del restante 25%).
Cresce anche la longevità professionale: se nel 2006 oltre il 50% degli archeologi era in servizio da meno di 3 anni e solo il 5% poteva vantare oltre 16 anni di anzianità, oggi il 20% degli intervistati dichiara oltre 20 anni di lavoro alle spalle e solo il 34% circa è sul mercato del lavoro da meno di 5 anni.
Una crescita che va di pari passo con quella delle mensilità lavorate durante l’anno (nel 2011 il 63% dichiarava di lavorare meno di 6 mesi su 12) e con l’aumento dei compensi: se nel 2011 il fatturato lordo annuo era di circa 15-20mila euro solo nel 12% degli intervistati, oggi si registra un fatturato lordo annuo di circa 18-24mila euro nel 48,57% degli intervistati, registrando però compensi anche di oltre 4000 euro lordi al mese (9,32% dei casi) soprattutto tra coloro che sono nella fascia di età tra 40 e 50 anni.
«La strada per un pieno accreditamento della professione di archeologo, però, è ancora lunga. E passa principalmente da tre vie: formazione universitaria, ordine professionale e riconoscimento sociale».
«Il quadro che si delinea grazie ai dati del III Censimento nazionale degli archeologi italiani – ha spiegato Marcella Giorgio, neo presidente dell’Associazione Nazionale Archeologi – ci permette di cogliere appieno la crescita della nostra professione, accelerata negli ultimi anni dagli sviluppi sull’archeologia preventiva, i progressi normativi sul riconoscimento professionale e i progetti PNRR». Per Giorgio, però, questa accelerazione «Non significa che le battaglie del passato siano tutte vinte e che il futuro sia roseo. Il malessere di un passato critico, percepito come ancora molto vicino, ha lasciato una percezione di negatività diffusa in molti colleghi». Insomma, il peggio è passato? «È importante prendere coscienza di quanto la situazione si sia evoluta negli ultimi 10 anni, consentendo di fare dell’archeologo un professionista a tutti gli effetti, che vive della sua professione sempre meglio e che, sempre meno, ne sopravvive saltuariamente. In questa maniera possiamo mettere meglio a fuoco gli obiettivi di crescita professionale del futuro: da un mercato del lavoro sempre più sano ed equamente regolamentato dal punto di vista di tariffe e condizioni lavorative, al riconoscimento sociale delle competenze di un archeologo nella gestione di territori e comunità, fino all’istituzione di un ordine professionale che possa riconoscere la complessità della professione di archeologo garantendone i diritti».
Una prima sintesi sarà presentata in anteprima a fine mese, in occasione del 30° meeting annuale della European Association of Archaeologists (EAA), che quest’anno si tiene a Roma, dal 28 al 31 agosto, ospitato dall’Università Sapienza.