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Non solo Matteo Messina Denaro. Tutte le volte che la mafia ha gestito traffici illeciti di opere d’arte
Attualità
Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato oggi dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. Il “numero uno” tra i latitanti italiani e uno tra i maggiori e più pericolosi ricercati al mondo: l’ultima volta che qualcuno lo aveva visto libero era l’agosto del 1993, mentre era in vacanza a Forte dei Marmi con i suoi fidatissimi amici, Filippo e Giuseppe Graviano.
Nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel 1962, Matteo Messina Denaro è figlio del patriarca mafioso Francesco Messina Denaro, don Ciccio, boss della zona, e legato al clan dei corleonesi di Totò Riina. Dopo la morte del padre, Matteo è diventato capo della cosca di Castelvetrano e pupillo di Riina.
A seguito dell’arresto di Riina si mise agli ordini di Provenzano, gestendo per Cosa Nostra il racket delle estorsioni, lo smaltimento illegale dei rifiuti, il riciclaggio di denaro e il traffico di droga. È considerato responsabile di numerose esecuzioni e attentati, come il sequestro, nel 1993, del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito per costringere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci e poi strangolato e sciolto nell’acido, dell’attentato contro il pentito Totuccio Contorno nel 1994 e di quello contro Maurizio Costanzo e Maria de Filippi a Roma, in via Fauro, nel 1993.
Il mondo dell’arte non è escluso dai circuiti e dagli interessi di malavitosi, così come è avvenuto nell’incredibile storia-latitanza di Messina Denaro. Già Don Ciccio, padre di Matteo, trafficava in opere d’arte: aveva trattato la questione dell’Efebo Selinuntino, una statua di bronzo risalente al 400 a.C., trafugata a Castelvetrano nel 1962 e ritrovata a Foligno nel 1968. Riguardo a questo episodio, il pentito Angelo Siino, disse che Francesco Messina Denaro «era giunto ad un accordo intascandosi un sacco di soldi».
Secondo la ricostruzione effettuata dagli investigatori della Sezione D.I.A. di Trapani, dietro a queste operazioni si nascondeva Giovanni Franco Becchina, compaesano dei Messina Denaro e noto commerciante internazionale di opere d’arte. A partire dal 1979 Becchina era stato più volte denunciato per detenzione illegale di reperti d’interesse storico artistico e nel 2001 veniva coinvolto in una indagine giudiziaria perché ritenuto a capo di un’organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di reperti archeologici, esportati illegalmente all’estero per essere successivamente immessi nel mercato internazionale, anche grazie a saldi contatti nel mondo dell’arte.
Nel 2017 le indagini portarono al sequestro di beni per oltre dieci milioni di euro a carico di Becchina, titolare sino dal 1996 di una galleria d’arte a Basilea, la Palladion Antike Kunst. In cinque magazzini svizzeri furono trovati migliaia di reperti archeologici risultati provenienti da furti, scavi clandestini, oltre che un archivio con più di tredicimila documenti sui traffici. Le opere d’arte furono sequestrate, ma Becchina uscì indenne dal processo per prescrizione.
Il pentito Giovanni Brusca ha riferito che, agli inizi degli anni Novanta, fu Totò Riina a indirizzarlo da Matteo Messina Denaro quando ebbe necessità di procurarsi un importante reperto archeologico, che avrebbe voluto scambiare con lo Stato italiano per ottenere benefici carcerari per il padre. Secondo il pentito Brusca, l’arte, quella rubata, ebbe un ruolo determinante nella trattativa segreta Stato-mafia, in cui spunta l’oscuro nome di Paolo Bellini, figura centrale nel recupero di opere d’arte trafugate ad enti pubblici in cambio di benefici penitenziari per i boss detenuti.
Uno dei casi più eclatanti, in cui fu coinvolto anche Messina Denaro, è la vicenda del furto alla Galleria Estense di Modena, nel gennaio 1992, quando un commando di quattro banditi legati al boss del Brenta Felice Maniero, fece irruzione nella pinacoteca modenese, appena riaperta dopo i restauri, legò i custodi e portò via dipinti di Velazquez, Correggio e il trittico di El Greco. Maniero, che era stato arrestato a Modena otto anni prima, dopo l’evasione aveva cominciato, nella stessa modalità di Cosa Nostra, a procurarsi cimeli d’arte da usare come arma di baratto con lo Stato. Le opere furono poi recuperate anche grazie all’intervento dello stesso Maniero e di Messina Denaro, in due fasi, nel 1993 e nel 1995.
Il 1993 è anche la strage di via dei Georgofili a Firenze. Nell’attentato dinamitardo furono ferite trentasette persone e in cinque persero la vita. L’esplosione inoltre provocò il crollo di un’ala della Torre del Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili. Furono danneggiati anche altri palazzi storici tra cui la Galleria degli Uffizi che subì la perdita di tre dipinti e il danneggiamento di oltre duecento opere d’arte. Secondo la testimonianza di Giovanni Brusca l’attentato fu ordinato dal boss Riina sempre nel corso della trattativa con lo Stato e ribadire la volontà di mettere fine ai provvedimenti di 41-bis.
«Con il traffico di opere ci manteniamo la famiglia», scrive in un pizzino Matteo Messina Denaro. Nei primi anni Duemila il collaboratore di giustizia Concetto Mariano ha dichiarato di aver ricevuto l’incarico dal boss di trafugare il famoso Satiro danzante, reperto archeologico conservato a Mazara del Vallo, con l’intenzione di commercializzarlo attraverso sperimentati canali svizzeri. Fu messo a punto il piano, scelta una data, ma un imprevisto mandò a monte tutto: qualche giorno prima dell’azione, le misure di sorveglianza attorno alla statua furono rafforzate e il bronzo attribuito a Prassitele fu poi trasferito negli uffici dell’Istituto centrale di restauro a Roma.
Riconducibile a Cosa Nostra è anche il furto della Natività del Caravaggio, trafugata nel 1969 a Palermo e mai ritrovata. Secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, che prese parte al furto, l’opera fu seppellita nelle campagne di Palermo insieme a cinque chili di cocaina e ad alcuni milioni di dollari, dal narcotrafficante Gerlando Alberti. Ma nel luogo indicato dal pentito Vincenzo La Piana, nipote del boss, non c’era più traccia della cassa contenente l’opera. Secondo Giovanni Brusca il furto della Natività fu, invece, opera dei Corleonesi, e usata successivamente come merce di scambio nella trattativa già citata per l’alleggerimento del carcere duro previsto dal 41 bis. Secondo un’altra versione, a tenere il capolavoro in casa era Gaetano Badalamenti, boss che fece uccidere Peppino Impastato, mentre per altri la tela fu abbandonata in una stalla in attesa di venderla a qualche ricco collezionista, mangiata poi da maiali e topi.
Ci sono boss mafiosi che dipingono, come Francesco Schiavone, detto Sandokan, Luciano Liggio o Gaspare Mutolo, storico pentito palermitano, killer e autista di Totò Riina, le cui opere sono state esposte in diverse gallerie italiane negli ultimi anni, altri che si dedicano al commercio di opere trafugate, altri ancora che vendono opere contraffatte. E poi c’è chi è dedito al collezionismo. È bene sottolineare che oltre al valore economico, spesso per un boss mafioso l’opera d’arte ha anche un valore simbolico che ne evidenzia il suo potere. Simone Di Meo nel libro L’impero della camorra racconta di importanti tele di scuola napoletana esposte sulle pareti della villa del clan camorrista Nuvoletta a Marano, a nord di Napoli. Quando nel 1991 furono sequestrati i beni di Pasquale Galasso, nella sua villa di Poggiomarino furono prelevati 150 quadri di pittori del Seicento e del Settecento napoletano e anche una Madonna del ‘400 francese, rubata anni prima ad Imperia ai fratelli Sada, proprietari dell’azienda Simmenthal. Furono, inoltre, sequestrati due leoni scolpiti in marmo di Carrara, sottratti a un’edicola funeraria nel cimitero di Mercato San Severino e il trono originale (a proposito di valore simbolico) su cui sedeva il re borbonico Francesco II.
Il 25 giugno 2009 furono sequestrate a Beniamino Zappia, secondo la Procura romana referente delle potenti famiglie di Cosa Nostra Bonanno di New York e Cuntrera-Caruana di Toronto, centinaia di tele dal valore incalcolabile.
Affamato collezionista era anche Gioacchino Campolo, “re dei videopoker” e affiliato alle cosche della ‘ndrangheta che, oltre ad avere nella sua collezione opere di Mattia Preti, Picasso, Dalì, Guttuso, Ligabue e Sironi, possedeva a sua insaputa anche 19 falsi.
Nella collezione di Massimo Carminati, uomo nero dell’inchiesta Mafia capitale, quadri di Mario Schifano e Giacomo Balla, disegni di Giacomo Manzù, tecniche miste di Filippo Tommaso Marinetti e Alighiero Boetti, una china di Renato Guttuso, diversi collage di Mimmo Rotella, serigrafie di Joan Mirò, tutti confiscati nel 2018.
Tra i capolavori in mano a boss sono da ricordare anche i due Van Gogh Spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta e Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen, trafugati ad Amsterdam e ritrovati nel 2016 nella proprietà del camorrista Raffaele Imperiale, poi arrestato nel 2022 a Dubai.
Il fenomeno della circolazione sul mercato internazionale di opere d’arte e reperti archeologici di “provenienza sconosciuta”, eufemismo usato, spesso consapevolmente, per definire manufatti quasi sempre di provenienza illecita, spesso coinvolge anche gli stessi musei. Si tratta di traffici illeciti che presuppongono necessariamente una rete criminale ben strutturata sul territorio, che spesso solo le organizzazioni criminali di stampo mafioso dispongono.
Impossibile non prendere ad esempio il Getty Museum, negli ultimi anni al centro di scandali che nel 2013 portarono a una capillare attività di verifica della provenienza di 45.000 opere attualmente presenti nelle sue collezioni e la pubblicazione dei risultati nel database online del museo. Tra le opere di provenienza illecita 56 ambre intagliate, che sono poi risultate quasi certamente bottino di saccheggi da tombe del Nord Italia e diverse altre restituite nel corso del tempo, come la Venere Morgantina, tornata in Sicilia nel 2011 o l’Atleta di Fano, statua bronzea attribuita a Lisippo, rinvenuta nel 1964 nell’Adriatico al largo delle coste marchigiane e poi illegalmente esportata.