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Fabio Cavallucci, ex direttore del Centro Pecci di Prato, dell’Ujazdowski Castle Centre for Contemporary Art di Varsavia, curatore (insieme a Carlo Ratti e Meng Jianming) di Bi-City, la Biennale di Shenzhen e Hong Kong e promotore del primo Forum dell’Arte Contemporanea, nel 2015 a Prato, è l’interlocutore di questa nostra intervista che, ancora una volta, prende in esame la situazione attuale e offre spunti per ripensare il prossimo futuro. Tentando di guardare oltre i pessimismi e le prime possibilità di ripresa.
Abbiamo visto in queste settimane che, da parte degli addetti ai lavori dell’arte, l’energia è rimasta in gran parte alle stelle. A cosa è stata dovuta questa euforia? Pensi che resterà alta anche quando si “riaprirà”?
«Le situazioni di pericolo, di crisi, producono adrenalina. L’euforia è normale per chi si trova dentro un avvenimento tragico o surreale. Però, devo ammettere – senza nulla togliere ai grandi sforzi compiuti da molte istituzioni e operatori – non ho visto uscire cose veramente geniali. In tanti si sono messi a suonare, cantare, raccontare, molti a cucinare, tutti riverberati dappertutto grazie a un profluvio di connessioni online, aggiungendo un rumore ulteriore al già forte rumore di fondo. In realtà abbiamo capito ciò che già sapevamo: se uno è Vasco Rossi, anche se canta solo con la chitarra davanti a uno smartphone, fa sbocciare poesia; se uno è un cretino, anche se canta con la chitarra davanti a uno smartphone, rimane un cretino».
Tra le idee uscite in questo periodo ve n’è una che sembra cambiare la modalità di produzione culturale, rendendola sempre di più “intrattenimento”. Che ne pensi?
«Immagino che tu ti riferisca all’uso del video e dello streaming, le principali modalità di diffusione di contenuti in questi tempi. Il punto è che storicamente la trasmissione video è quasi sempre stata utilizzata come mezzo di intrattenimento. È la televisione, e in special modo la televisione italiana, che negli ultimi decenni ha veicolato soltanto spettacolo, e spesso del genere più basso. È un limite che la maggior parte delle persone accetta, ma non è imposto in assoluto dal mezzo stesso. In realtà la trasmissione a distanza di immagini in movimento era stata salutata alla sua nascita dagli artisti anche come potente mezzo di innovazione. Già Fontana, nel Manifesto dello Spazialismo, invocava la necessità di realizzare opere per la tv. Da Nam June Paik, inventore di un Blob ante litteram, ad Allan Kaprow che usava il video per connettere i bambini di un asilo con i propri genitori, ai Superflex che hanno realizzato web tv ad uso delle comunità di anziani di Liverpool o degli studenti di Trento, sono state tante le sperimentazioni. Ma in Italia la linea dominante è stata dettata dalla televisione berlusconiana, legata esclusivamente all’audience e al mercato. E allora non c’è da stupirsi che quando il Ministro Franceschini prova a immaginare un mezzo per esportare la cultura italiana nel momento in cui i musei e le mostre sono chiusi, pensa a Netflix, a un sistema di distribuzione di prodotti di intrattenimento. Qui però c’è anche un limite delle nostre istituzioni, che non hanno fatto nessuna ricerca in questo senso negli anni passati, non hanno dato agli artisti l’opportunità di usare questo mezzo in modo innovativo. Così oggi l’uso che per la maggior parte se ne vede fare è di carattere strumentale, come medium per trasferire prodotti già realizzati, non sostanziale, come elemento di innovazione artistica. La sperimentazione in questo senso più interessante è stata DOOU di Nico Vascellari, sia per l’uso fatto dei social nella promozione, che per la performance stessa, la cui interminabile durata ha dato un senso alla diretta, con l’uscita dallo schermo del protagonista poco prima dello scadere delle 24 ore, insinuando così un dubbio rispetto al tema della performance stessa, quello del trust, della fiducia. Peccato solo che sia stata basata su una canzone di Andy Kaufman senza che questo fosse menzionato preventivamente…».
Dopo le urlatissime domeniche gratis al museo che registravano numeri da capogiro bisognerà ripensare anche “i pubblici”. Ma mentre il pubblico della Pinacoteca di Brera probabilmente non tarderà a tornare, cosa fare con i “pubblici” del contemporaneo?
«Questo del pubblico, in realtà, è un problema temporaneo. Appena verrà trovato un vaccino o una qualsiasi cura per il Covid-19, le nostre relazioni interpersonali torneranno ad essere quelle di prima. E il problema dei musei sarà esattamente il medesimo che in passato: quelli di arte antica torneranno ad essere perlopiù strapieni; quelli d’arte contemporanea pressoché vuoti. Questo perché il museo d’arte contemporanea ha perduto ormai la sua tradizionale funzione (“raccogliere, conservare, divulgare l’arte contemporanea”, come recitano di solito gli statuti) e non è stato in grado di costruirne una nuova. La pandemia ha costretto molti direttori a sperimentare qualche strada diversa, ma ancora non si intravedono soluzioni finali, e sicuramente non indirizzate a potenziare il pubblico quando la crisi sarà finita».
Ammesso che bisognerà, per un periodo, rassegnarsi a essere meno globali e più locali, come ti aspetti la ripresa dei musei?
«Non mi aspetto molto. A dire il vero nemmeno a livello internazionale ci sono all’orizzonte grandi novità. C’è qualche sperimentazione interessante, come quella del MAMbo di Bologna, ad esempio, che si trasformerà per un periodo in luogo produzione. Strategia eticamente e tecnicamente perfetta, per affrontare il distanziamento in un periodo di riapertura ancora col rischio di contagio. Però alla lunga non potrà funzionare. Non si giustificherà politicamente una macchina così imponente per favorire la produzione di una decina di artisti».
Parliamo del Forum dell’Arte Contemporanea: mentre attori, danzatori e operatori dello spettacolo sembrano aver alzato la voce e ottenuto qualcosa (parlo dei 20 milioni extra FUS) il mondo dell’arte visiva è ancora all’angolo. Quali sono le linee guida del futuro?
«Il Forum è ripartito. Noi della vecchia guardia eravamo usciti dalla gestione circa un anno e mezzo fa, lasciando spazio ai più giovani, ma siamo stati richiamati dal nuovo board proprio per creare una maggiore massa critica per affrontare la situazione di urgenza che si è creata. E ora tutti stanno lavorando per sviluppare delle proposte forti, di grande impatto».
Raccontaci del Forum online…
«Si tratta di una “chiamata alle arti”, nel quale i tavoli hanno tempi più dilatati dei forum tradizionali, dal momento che non ha senso replicare in rete il limite dei tavoli fisici, dove le persone devono trovarsi per forza in un luogo e in un tempo precisi. Il Forum online si svolge da ora (sì, si è aperto proprio in questi istanti) al 30 maggio, giorno della plenaria. Ci sono sei tavoli, che toccano temi stringenti, questioni impellenti come il sostegno agli artisti, la riforma dell’Italian Council, i finanziamenti ai musei, ma tutti finalizzati, oltre che a dare risposte all’urgenza, a operare in una prospettiva di profonda trasformazione del sistema dell’arte. Insomma, nella consapevolezza di non voler tornare alla situazione pre-pandemia, perché proprio quella “normalità era il il problema”: il sistema già non funzionava e andava comunque cambiato. Come sempre, anche se con modalità raffreddate dallo svolgimento in digitale, mi attendo grande partecipazione e spero in un ottimo rilancio dei contenuti che usciranno».
Tornando alla digitalizzazione e al “Netflix della Cultura”, non ti sembra un’operazione per tagliare – ancora, e ancora – posti di lavoro, finanziamenti pubblici alla cultura, e appiattire ulteriormente l’offerta promuovendo sempre di più i “grandi player” dell’arte?
«Non preoccuparti: non si farà! Perlomeno non sull’arte contemporanea. L’arte – magari ancora solo per pochi anni – ha una necessaria dimensione fisica. Come ci vedi Roberto Cuoghi dentro a Netflix, lui che più che altro è scultore, o come Giorgio Andreotta Calò, scultore pure lui, o Rossella Biscotti, che anche se realizza qualche video il più delle volte lo presenta in videoinstallazioni in relazione con lo spazio? E cosa ci metteresti di Maurizio Cattelan su Netflix? Al massimo un documentario. O di tanti artisti giovani che sono tornati alla pittura? Questa mi pare più una boutade uscita da qualche spin-doctor nelle notti insonni dei membri del Governo per affrontare i problemi della pandemia che una proposta concreta».
Gli artisti sono i più coinvolti in questa vicenda, perché non sono tutelati praticamente in nessun modo, eppure nessuno sembra interessarsi della loro opinione. Perché?
«L’arte nel corso degli anni ha perduto gran parte del peso che ha avuto storicamente nella società. Qualche giorno fa, quando è scomparso Germano Celant, mi veniva in mente che cinquecento anni prima al funerale di Raffaello c’era tutto il popolo di Roma. Celant è pari a Raffaello per importanza e per fama, anche se non è un artista, ma molti giornali e le televisioni non si sono nemmeno accorti della sua scomparsa. Il problema è che il sistema economico su cui si è basata l’arte negli ultimi decenni, quello del mercato collezionistico, se da una parte l’ha sostenuta e in certi momenti l’ha fatta anche diventare un prodotto cult, molto trendy, di moda, in realtà l’ha mano a mano allontanata dal grande pubblico. Per cui è chiaro che oggi gli artisti non sono più percepiti come una voce importante».
Che idea ti sei fatto della gestione di questa situazione a livello politico, comunicativo, rispetto alla società, ai diritti dei cittadini?
«È da un po’ di anni che sostengo che l’arte deve tornare ad essere “popolare”. Non siamo più nell’età delle Avanguardie storiche, dove bastavano sette cubisti o dieci futuristi per cambiare il corso della storia culturale. Ora anche l’arte e la cultura devono fare i conti con una sorta di “democratizzazione” imposta dal sistema dei social network. A decidere cosa è arte e cosa è di qualità non sono più alcune élite ristette, ma tutti coloro che lo vogliono. Con questo tipo di processo, che piaccia o no, bisogna fare i conti. Non in modo banale, abbassando il livello, ma occorre che il mondo dell’arte compia uno sforzo per essere più comprensibile, più vicino alla gente, toccare problemi che le persone sentano come propri. Non è una strada facile, né diretta, ma è questa la direzione che credo occorra intraprendere se non si vuole vedere sparire tutto questo bel mondo di immagini, colori, luci, ma anche procedure, funzioni, persone, che usiamo chiamare arte».