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«Non apriremo finché non saranno liberati tutti gli ostaggi»: il Padiglione Israele in Biennale resta chiuso
Attualità
di redazione
Il Padiglione Israele della 60ma Biennale d’Arte di Venezia rimarrà chiuso, «fino a quando non sarà raggiunto accordo per il cessate il fuoco e per la liberazione degli ostaggi». Comunicata tramite un manifesto affisso sulla vetrata di ingresso del Padiglione, situato ai Giardini, la decisione è stata presa dall’artista Ruth Patir e dalle curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit. Il governo israeliano non sarebbe stato informato della scelta di chiudere il Padiglione. Nelle scorse settimane, migliaia di operatori del mondo dell’arte e della cultura avevano sottoscritto una lettera per invitare la Biennale a escludere il Padiglione israeliano dalla manifestazione, che aprirà al pubblico dal 20 aprile al 24 novembre 2024. Ma l’organizzazione della Biennale aveva risposto, sostanzialmente, declinando la responsabilità della scelta agli artisti e ai curatori che, alla fine, a poche ore dall’inaugurazione, hanno scelto di non aprire. Le tre opere video che avrebbero fatto parte del progetto espositivo, intitolato (M)otherland, saranno comunque fruibili dall’esterno, attraverso la parete trasparente del Padiglione.
«L’arte ha bisogno di un cuore aperto, cosa che in questo momento non esiste, quindi è meglio restare chiusi», hanno spiegato Margalit e Lapidot ad Haaretz. Capo curatrice del Museo d’arte di Tel Aviv, Lapidot già si era dichiarata indignata per la richiesta di esclusione degli artisti a causa della loro nazionalità ma, allo stesso tempo, aveva rifiutato di considerarsi rappresentante dello Stato israeliano. «Soprattutto, come esseri umani, donne e cittadini, non possiamo essere qui quando non cambia nulla nella realtà degli ostaggi. Fino all’ultimo pensavamo di andare in un’altra direzione e che ci fosse un accordo sul tavolo. Apriremo il padiglione quando verrà raggiunto un accordo sugli ostaggi e un cessate il fuoco, e speriamo che ciò accada durante i sette mesi della Biennale», hanno continuato le curatrici. A pesare sulla scelta potrebbe essere stato anche il timore di ritorsioni nell’ambito dell’escalation di violenza degli ultimi giorni, dopo il lancio di droni e missili dall’Iran verso il territorio israeliano, a seguito del bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco. Anche il Padiglione della Repubblica Islamica dell’Iran, in esposizione a Palazzo Malipiero, è stato al centro di polemiche, dopo una lettera firmata da autori come l’artista Shirin Neshat e la fumettista e regista Marjane Satrapi, nella quale si metteva in luce il regime di terrore imposto dal governo, in particolare contro le donne.
Questa decisione presa dall’artista e dagli organizzatori del Padiglione di Israele mi ricorda ed assomiglia a uno dei miei Testamenti esposti per la prima volta nel 2003 al MLAC di Roma che dice così: “Questo quadro dovrà considerarsi opera d’arte solo quando Ebrei e Palestinesi smetteranno di uccidersi”. In seguito, alcuni anni dopo ho fatto anche la versione in inglese. pino boresta