Febbraio è il Black History Month, il mese in cui si celebra la black culture in tutte le sue sfumature, per ricordare le vicende degli afroamericani e la storia della diaspora africana. Si tratta di una ricorrenza osservata principalmente negli Stati Uniti d’America, in Canada e nel Regno Unito (ma quest’ultimo celebra in ottobre). Tantissime le iniziative portate avanti durante febbraio, anche in Italia – come il Festival a Firenze dedicato alla storia e alla cultura africana.
In occasione della celebrazione, vi presentiamo alcuni artisti e artiste di origini africane che hanno scelto di introdurre questo aspetto della loro identità nella propria produzione artistica. In questo modo la loro arte diviene esplicito elemento di denuncia e di riflessione su questioni sociali e culturali. Perché pubblicare un articolo sul Black History Month quando sta volgendo ormai al termine? La ragione è molto banale. Speriamo vivamente che questo possa essere un rilancio anche per i mesi successivi, per non condensare l’attenzione solo durante le ricorrenze cerimoniali.
Nato a Los Angeles e originario della Nigeria, Kehinde Wiley raccoglie l’eredità di una lunga serie di ritrattisti della storia dell’arte, tra cui Reynolds, Tiziano, Ingres. Wiley è infatti noto per i suoi enormi ritratti iperrealistici di persone nere, siano esse V.I.P. o no, che assumono pose da quadri e sculture. Antichità e presente si intrecciano con un risultato perturbante, a tratti ambiguo. «La pittura è un modo di parlare del mondo in cui viviamo. Uomini e donne nere abitano questo mondo. Io scelgo di includerli. Questo è il mio modo di dire yes alla categoria a cui anch’io appartengo», ha dichiarato l’artista.
Il suo ritratto di Barack Obama è sicuramente l’opera più famosa del genere. Obama è stato il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti, e Wiley il primo afroamericano a esporre una sua opera nella Smithsonian National Gallery of Portrait, che conserva i ritratti ufficiali dei presidenti statunintensi. È stato proprio Obama a ingaggiare Wiley per il suo ritratto ufficiale. Quest’opera non ha i soliti rimandi storico-artistici, ma i fiori dello sfondo sono simboli cari all’ex presidente, come i gigli africani che omaggiano il suo defunto padre kenyota.
Pochi mesi fa è stata inaugurata la sua fontana alla Tate Modern di Londra, in occasione di Frieze. Vi ricordate? Qui vi rinfreschiamo la memoria. C’è tempo fino al 5 aprile per vedere dal vivo la monumentale installazione di Kara Walker, che rimanda alla storia e alla segregazione del popolo nero.
Il suo primo progetto pubblico su larga scala risale a sei anni fa. L’installazione A Subtlety è una gigantesca scultura, collocata nelle rovine pronte alla demolizione di una fabbrica di zucchero, a Brooklyn. Una sfinge di dieci metri, dalle fattezze di una donna afroamericana, tributo al lavoro forzato degli schiavi che ha alimentato per decenni il lavoro della fabbrica. L’opera ha attirato più di 130mila visitatori nell’edificio fatiscente, inaugurando la serie di grandi successi di Walker.
No, non Nick Cave il cantautore – si tratta di un caso di omonimia. Nella sua arte, Cave discute le tensioni razziali in America, in particolare nei casi più espliciti di violenza armata. Lo fa ibridando contesti e linguaggi, a metà tra la cultura ritualistica africana e la contemporaneità, costruendo nuove immagini e nuovi miti moderni.
Le sue celebri Soundsuits sono sculture, indossabili come vestiti, composti da materiali tra i più vari, in una coloratissima sintesi multiforme e multietnica. Spesso è proprio Cave a indossarle, inscenando spettacoli psichedelici carichi di energie primordiali. Tali scelte sfidano apertamente le nozioni tradizionali di identità e cultura, pensate come chiuse e impenetrabili, proponendone invece una interpretazione più che mai inclusiva. Chi indossa le Soundsuit, rende invisibili il proprio sesso, l’età, la classe sociale, divenendo una figura archetipica che va oltre l’individuo, in un nuovo e più aperto immaginario di libertà.
Smalti, acrilici brillanti, strass: sono questi gli ingredienti che compongono le vivaci opere di Michalene Thomas. Ma anche video, installazioni, fotografie, in un vasto vocabolario multimediale. Uno stile pop inconfondibile, che esamina i concetti di femminilità, bellezza, razza, sessualità, gender.
L’opera Le déjeuner sur l’herbe: Les Trois Femmes Noires rimanda agli studi di storia dell’arte di Thomas, omaggiando la celebre colazione sull’erba di Manet. In questo caso, però, i personaggi sono stati rimpiazzati da tre donne afroamericane, che rivolgono sicure lo sguardo allo spettatore. Una sfida aperta sfida all’immaginario della donna nell’arte, spesso remissiva, timida, che si deve prestare tacitamente allo sguardo morboso del pubblico.
Spostandoci in Europa, non possiamo non citare uno degli artisti che maggiormente si è distinto per la sua esplorazione di tematiche postcoloniali, nonché membro degli Young British Artists. Attraverso l’uso di diversi media, l’anglo-nigeriano Yinka Shonibare esplora il concetto problematico di “autenticità” rispetto all’arte africana, anche e soprattutto nel delicato rapporto politico e culturale con l’Europa.
L’artista riflette su questioni identitarie, di razza e di classe, non senza una pungente ironia. Spesso introduce elementi africani in contesti altri, come la Nike di Samotracia che indossa svolazzanti tessuti africani, o quando impersona lui stesso un bizzarro Dorian Gray dalla pelle nera. Si gioca tutto su queste dissonanze, che rendono la realtà meno familiare, costringendo lo spettatore a riconsiderare ciò che sta guardando. Si parte da un modello familiare, a cui è aggiunto qualcosa di estraneo, che risemantizza la cultura in maniera inedita, in un groviglio inestricabile tra identità e alterità.
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