Se qualcuno di voi si fosse mai imbattuto nel Pasto Nudo, che sia nel romanzo del 1959 di William Seaward Burroughs o nella versione di David Cronenberg del 1991, avrà visto sicuramente un grandissimo riferimento a ciò che oggi definiamo understatement: in un mondo patriarcale in cui il controllo politico si esprime attraverso un obbligo forzato a compiere la propria missione (che corrisponde all’alienazione nel compito di Byung-Chul Han), l’evasione rappresenta l’unica terza via percorribile per soppiantare un sistema di valori esacerbato, stereotipato, in cui domina la repressione del nemico pubblico.
Nel romanzo, il sistema politico è testimoniato dalla folle struttura del controllo politico – un eco della scuola di Francoforte, che qui viene resa con termini Foucaultiani – in cui la libertà d’espressione può essere resa solo attraverso un contro-sistema – tipico della Beat Generation, cui Burroughs fa capo, dell’uso delle droghe rettiliane.
La comunicazione passa da scritta a telepatica, perciò da verbale a gestuale. La parola, basterebbe pensare a Orwell in 1984, è veicolo demagogico della resa estetica del sistema di potere a cui l’individuo appartiene. La comunicazione non-verbale, oppure anti-verbale, è la finzione, intesa come veicolo rivoluzionario della rivoluzione politica. Nel romanzo, infatti, la telepatia è il sistema di pensiero anti-scientifico a cui corrisponde il pensiero libero.
Oltre la telepatia – perché chi scrive non vuole né prendervi in giro né farsi prendere in giro – il pensiero libero può essere percepito come uno specchio per le allodole. Dove sta, effettivamente, la libertà? Nella libertà del cambiamento o nella libertà nel cambiamento? La forma della libertà eccede la sostanza stessa della libertà?
Se, dopotutto, esiste, nel mondo dell’arte, un mostrismo imperante – di cui ha già parlato, prima di tutti, Celant, e poi Obrist, Trione e Montanari e infine Mark Godfrey nel saggio introduttivo al catalogo della grande mostra di Pino Pascali a Fondazione Prada -, per cui produrre è associato alla cifra stilistica dell’alto grado della conoscenza estetica che l’arte veicola, ha soppiantato il sistema critico della ricerca della conoscenza stessa, allora serve identificare un colpevole, o almeno un paradigma dannato.
Penso, in cuor mio, che possa essere il Kitsch: appiattimento della sfera sensoriale; immediatezza – estrema – visiva; narratologia effimera in cui trama e racconto si fondono. Il Kitsch, già approfondito da Greenberg (forse, come Malthus, l’uomo più odiato del suo secolo, per lo meno dagli artisti, dai critici e dall’artworld), rappresenta quella facilità gestuale che presuppone la velocità nella fruizione, opponendosi alla lentezza della comunicazione.
Grande allievo di Greenberg, Szeemann: l’arte è obbligo di pensiero; lentezza creativa opposta alla velocità produttiva; sempre pensiero estetico, opposto alla percezione della sensazione. Nella Logica della Sensazione di Deleuze, la sensazione interviene solo come mezzo per palesare, rendere visibile, e non come fine da perseguire. Nel caso di Deleuze, Bacon capta quelle forze sotterranee che rende forme pure della realtà, cristallizzate nel loro stesso movimento spasmodico di trovare una forma.
In questo, ed è un riferimento che la cancel culture ha tentato di ostracizzare in ogni modo possibile, Carmelo Bene.
Bene distrugge l’estetica contemporanea, distruggendo il cinema: ammucchiata senza un criterio dei complessi traumatici della nostra epoca, può essere il paradigma di salvezza di tutta l’arte. Una lunga storia sul pensiero sulla vita stessa pervade quelle arti così antiche da essere ancestrali: Artaud, poco prima, aveva teorizzato il teatro senza parole, così come il teatro senza attori; Pina Bausch il teatro cieco dell’intuizione, la germinale prospettiva della nascita della tragedia; Ingmar Bergman aveva riprodotto la tragedia esistenziale della frammentazione dell’identità e Fellini aveva sfiorato le altezze del sole di Icaro nel sogno, stuprando la realtà in favore della sua scomparsa.
50 anni fa, nel 1974, Carmelo Bene realizzava quello che sarebbe stato, nel 1977, il suo esordio in Rai con Quattro modi per morire in versi: Majakowskij, Blok, Esenin, Pasternak suscitando un riscontro quanto positivo quanto violento e catartico. Per riprendere All’amato me stesso di Majakowskij, una delle poesie recitate da Bene nello spettacolo, l’autore rompe con questo paradigma narcisistico dell’estetica, che appare ancora più attuale all’interno della nostra società narcisista.
Quattro. Pesanti come un colpo.
“A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.
Ma uno come me dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S’io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l’alta marea,
accarezzando la luna.
Dove trovare un’amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!
O s’io fossi povero come un miliardario… Che cos’è il denaro per l’anima?
Un ladro insaziabile s’annida in essa:
all’orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l’oro di tutte le Californie!
S’io fossi balbuziente come Dante o Petrarca…
Accendere l’anima per una sola, ordinarle coi versi…
Struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.
O s’io fossi silenzioso, umil tuono… Gemerei stringendo
con un brivido l’intrepido eremo della terra…
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.
Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.
Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s’io fossi appannato come il sole…
Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra?
Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?
Da quali Golia fui concepito
così grande,
e così inutile?
Contro il Kitsch è contro il relativismo scellerato – che accomuna anche grandi storici e curatori. Contro il Kitsch è contro il decorativismo, a favore della complessità. Contro il Kitsch è contro il massimalismo – in senso lato – per favorire un ritorno all’ossatura, all’estetica nella sua accezione più spiccatamente reale (come in Brodskij, l’estetica è madre dell’etica).
Perché il Kitsch ha privato il mondo della sua estetica stabilendo un’etica che non è altro che un understatement, un’etica del controllo e controllata. Perché il Kitsch è understatement. Perché il Kitsch propina l’odio violento a cui siamo tremendamente assuefatti.
Dunque, per ristabilire una nuova origine dell’estetica che l’arte veicola: dis-gregare per dis-articolare e dis-truggere per dis-fare e ripartire dalle ceneri della distruzione delle rovine della nostra contemporaneità fatiscente.
Per favore, ripartiamo da Carmelo Bene.
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