L’ironia, quella non abbandona l’Italia pronta a riderci su. Degli infiniti meme, di chi colleziona le autocertificazioni, mentre tenta di capire se sia più congiunto il fidanzato che sente tutti i giorni o la zia che non vede da anni. Arcobaleni appesi a finestre e balconi, in un trascorso mese e mezzo che – ti pareva mai – almeno qui, a Genova, è stato tra i più soleggiati degli ultimi tempi. E critiche, un tiro incrociato tra forze politiche che sono come le rette parallele: non s’incontrano mai. Prevedibile, e in fin dei conti è la democrazia bellezza, baluardo primo di un pluralismo sacrosanto.
Cos’altro resterà di questa quarantena? L’informazione, che se non correttamente veicolata/recepita si tramuta nel suo contraltare, la disinformazione, più letale dello stesso virus che pensa di raccontare. E resta una sequela di cartoline dalla quarantena, che per ora hanno l’utilità di raccontare il Belpaese. Ma più in là ricorderanno ai posteri sia questo momento storico, sia quanto la nozione di “democrazia” tramandata nei secoli rappresenti un concetto quanto mai labile.
Ho nella testa un’immagine, un uomo sdraiato al sole, la tipica “persona comune” (terminologia che uso masochisticamente, da fine riconoscitore della sua incommensurabile insensatezza). Quello insomma che per gran parte dei giornalisti rappresenta il perfetto “furbetto” di turno. È solitario sul litorale riminese, poco più in là due agenti della municipale stanno per interrompere quella sua solitudine. Come sia arrivato lì personalmente mi è ignoto, e forse mi sento troppo poco giustizialista per domandarmelo.
Tanto basta a far capire quanto l’antico confine tra libertà e libertinaggio – concetto che la cara Suor Ada, mia maestra alle elementari, rimarcava più volte – non appaia sempre così nitido. Non lo è, quantomeno se il tuo dovere primario di cittadino corrisponde ad un categorico «Io resto a casa». Poco importa quindi se qualcosa sembra non tornare in quell’immagine, prodotto inconsapevole di un’estetica impattante applicata ad un iconografia distopica. Importa ancor meno se nella logica di quell’immagine “distopico” rischia di diventare sinonimo di “surreale”. E ancora meno del meno se «Io resto a casa» concerne un atto cosciente e consapevole da parte della popolazione. Ovvero qualcosa che ha tutt’altra verve rispetto ad una semplice imposizione impartita, come se la popolazione stessa fosse solo una banda di scolaretti scalmanati da tenere a bada.
Che altro resta? Ah si, la vecchia e cara televisione, tra approfondimenti che nel tentativo di andare a fondo sulla questione Covid-19 si prestano più che altro all’abilità di raschiare il fondo del barile. E in quel contenitore sempre più piatto – fisicamente parlando, sul contenutisticamente semmai se ne discute un’altra volta – c’è la pubblicità, mass media sempre a portata di mano, anzi cresciuta in dignità artistico-comunicativa quando l’obbiettivo è delineare i contorni sociali di un determinato periodo storico. Si è riempita di hastag, per rincuorarci che tanto «Andrà tutto bene» e non «Tutto a puttane», come uno dei tanti – e geniali – coronavirus-meme dall’alto dei social lasciava intendere. Perché il virus c’è, e a quanto pare dobbiamo ricordarcelo, e la pubblicità oggi funziona come una sorta di maestranza nell’arte del “memento mori” 2.0. Un memento ovviamente riadattato all’occasione.
È come se potesse esistere un filo diretto tra i pastorelli sbigottiti nell’Et in Arcadia Ego alla Guercino, il «Ricordati che devi morire» appreso da un perplesso Troisi colto in contropiede, e infine noi stessi, al cospetto di messaggi pubblicitari che inesorabilmente inchiodano ad un 2020 balordo. Ma con l’imperativo che nella situazione attuale la speranza sia l’ultima a morire. Sic transit gloria mundi, erano gli inizi di febbraio, e siamo passati dal chiederci che fine avesse fatto il buon Bugo in quel di Sanremo, per ritrovarci nella seconda metà del mese a guardare in cagnesco il nostro prossimo perché gli è presa la raucedine. «Che vita di merda» cantava Levante in tempi meno sospetti di adesso, appesi ora come ora alle curve epidemiche, inchiodati agli istogrammi in cui cerchiamo di leggere il futuro nazionale.
Detto questo una cosa è piuttosto certa: il ritorno al passato, ai retaggi idilliaci di quando tutto filava – se non proprio liscio discretamente meglio – in campo pubblicitario pare fondamentale. Ce lo indicano campagne che riportano in auge vecchi cavalli di battaglia della comunicazione. Ferrarelle abbina un messaggio semplice, ma non troppo semplicistico, alla mitica Gioconda “liscia o gassata”. Ancora di più ha fatto Barilla, rispolverando il suo celebre adattamento di Hymne di Vangelis; quello universalmente riconosciuto come “musica della Barilla”, e che più o meno tutti i bambini a cavallo tra gli anni ’80 e primissimi ’90 imparavano orgogliosamente strimpellare. E va detto: i più cool sulle tastierine, tutti gli altri col flauto. È tornata, di passaggio in uno spot-tributo “incita Italia” più che “cura Italia”. Una malinconia dormiente, riattivata scartabellando i simboli emotivi dell’ultima “età dell’oro”, vera o presunta che sia stata. Quella malinconia di chi forse preferisce guardare indietro, che inerpicarsi nel predire il futuro decifrando un DPCM dopo l’altro, indipendentemente dal fatto d’essere nativo anni ’80 come il sottoscritto. Quella malinconia che resta, e dalla sua prospettiva ti fa pensare che si stava meglio. Si, ma quando si stava meglio di adesso.
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