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E dopo la tempesta?
Attualità
Come sempre accade dopo i grandi abbagli sono necessari alcuni momenti per riprendere a vedere bene. Questo, senza ombra di dubbio, è il momento del grande abbaglio. Come pappagalli impazziti dall’eterna luce dell’informazione alla quale da oltre un mese siamo sottoposti stiamo girando nella ruota della gabbia all’impazzata, a perdifiato. Tutto in nome dell’arte che non si ferma, dell’andrà tutto bene, del ce la faremo. Tutte azioni completamente gratuite e, spesso, dal respiro corto.
Ma come? Questi fanno notizie sulle iniziative online da una parte e dall’altra, fanno il questionario per i lavoratori dell’arte, fanno le dirette per essere più vicini al popolo dell’arte e poi si lamentano di quello che sta succedendo? Sì e no.
No, perché anche noi facciamo parte del circo mediatico (d’altronde siamo una piattaforma che vive sul web; ci vivevamo prima dell’emergenza Covid, e continueremo a viverci dopo) e visto che siamo una piattaforma di informazione e non di intrattenimento ci terremmo a esprimere la nostra visione.
Sì, perché passata l’euforia del momento del “mal comune mezzo gaudio”, degli stratagemmi ideati per resistere e per non fare la figura degli assenti dal grande assembramento che si è trasferito dalla realtà alla virtualità, sarebbe forse ora di iniziare a riflettere seriamente intorno a quello che sarà il futuro di questo strano e vituperato comparto della cultura. Comparto che conta migliaia e migliaia di personalità: dai giornalisti agli imprenditori, dagli artisti ai curatori, dalle gallerie alle fondazioni, dai musei agli spazi no profit, dagli uffici stampa ai canali di vendita online e alle televisioni, dagli investitori ai collezionisti, dalle compagnie teatrali agli attori, dai cantanti agli scenografi.
Dopo la tempesta
È arrivato, direi, il momento di pensare a cosa fare DOPO.
Fintanto che, usando una metafora, la luce resterà spenta (ovvero saremo chiusi in casa e la vita culturale continuerà impazzita attraverso i media – social e non) la botta sembrerà sopportabile. Perché ancora ci sembra di fare ognuno la propria parte, ognuno di aiutare – per quel che è possibile – a non crollare.
Siamo avvolti, insomma, da una seconda psicosi. La prima è quella del terrore atavico della perdita e del futuro incerto. La seconda è la lotta alla sopravvivenza del proprio io: nessuno vuole perdere visibilità, nessuno vuole restare indietro e chi fino a ieri non era “sociale-digitale” oggi si inventa su due piedi strategie che chissà, tra qualche tempo, che piega prenderanno.
Continuo a usare la metafora dell’elettricità: tra poche settimane (vogliamo essere ottimisti) “tornerà la luce”; usciremo di casa (e non rientreremo nei musei; siamo ottimisti, non stolti) ma probabilmente non tutti avranno gli impianti funzionanti. Molti impianti del “sistema dell’arte” italiano saranno bruciati dalla potenza di questo fulmine-black out, saranno fuori uso. E forse non si troveranno tecnici e tecniche per ripararli in fretta.
Allora lì, forse, qualcosa si dovrà fermare. Questo è il punto.
È proprio come in discoteca: a ballare al buio, con le strobo negli occhi, la musica altissima e un po’ strafatti, si fa presto a finire per fare l’amore con qualcuno che mai avremmo concupito a mente lucida. Chi resta in pista a ballare fino alla chiusura sa quanto è tragico il momento della riaccensione delle luci: facce sfatte, gente che dorme buttata in qualche angolo, trucco sbavato. E le forze per rincasare che vengono a mancare, storditi dalla notte brillante.
Non sono un veggente, e non sono nemmeno un fautore della pratica del piangersi addosso, anzi, ma sono convinto che, in questo caso, sia necessario iniziare a sensibilizzare un vero e proprio pensiero di ricostruzione del comparto, che NON PUÒ essere lasciato ai singoli.
E che non può essere relegato alla solita storia dei paracadute, ai fondi “per l’emergenza”.
Pochi giorni fa ascoltavo dei problemi che si stanno verificando rispetto ai mancati indotti del mondo calcistico. Milioni di euro. Ma chi è che, per esempio, sta pensando realmente a come far fronte ai milioni di euro che vengono ricavati dalla presenza di milioni di turisti che, in questo momento e nei prossimi mesi, saranno perduti?
Roma, Firenze, Napoli e la tanto attrattiva “nuova” Milano, così come Rimini – il Sindaco del Capoluogo romagnolo diversi giorni fa ha denunciato una situazione inimmaginabile a proposito della totalità di cancellazioni per l’estate – sono deserte, private della loro linfa più preziosa: la capacità di accoglienza.
Si fa presto, insomma, a non fermarsi quando tutto viene realizzato a costo zero (basta avere un cellulare e una connessione), e si fa ancora più presto a parlare di “contenuti” quando è assente il contenitore (perché è chiuso ed è un dato di fatto).
Provate a mettere dei fogli di carta su un marciapiede senza che siano contenuti in una scatola. Quanto restano al loro posto? In quanto tempo saranno danneggiati, sporcati, pestati, deprivati del loro statuto, della loro identità? É la stessa cosa che accade alle opere d’arte, triturate a più non posso nel frullatore dell’online.
Provate a costruire una biblioteca senza un tetto. Quanto tempo resisteranno le parole prima di essere cancellate dalla pioggia o dal sole?
L’investimento infrastrutturale
NESSUNO mette in dubbio che le soluzioni virtuali adottate da chiunque in queste settimane possano rappresentare un giusto prosieguo delle proprie attività, un invito e un impeto – appunto – per non sparire nella folla ma quello che bisognerà SOSTENERE, RIPARARE, RICOSTRUIRE, alla fine di questa emergenza, sono le STRUTTURE, nel senso più ampio del termine.
Le strade per strutturarsi non sono molte, direi che sono due. Soltanto che la prima è fallimentare, ed è quella del volontariato, della gratuità. Quando il sistema ricomincerà a girare, più povero di prima, vedremo quanti potranno affrontare di nuovo il celeberrimo lavoro gratuito, il lavoro della gloria e della “visibilità”. E si badi bene, non mi riferisco solo ai contributors che riempiono le pagine della metà dei giornali d’Italia, ma anche e soprattutto agli artisti, ai creativi, a coloro ai quali, in questo momento, tutti stiamo chiedendo aiuto a titolo “d’emergenza”. Senza offrire una lira in cambio. Ma c’è poco da stupirsi, il mondo dell’arte italiano vive in una emergenza continua e in una prognosi sempre riservata. Un po’ come quello della sanità, come abbiamo ben notato.
La seconda strada è quella dell’investimento. Dell’INVESTIMENTO INFRASTRUTTURALE, ovvero quello che manca al nostro Paese da decine di anni. Al nostro Paese che ha accorpato le ASL e chiuso gli ospedali e poi lamenta la carenza di posti letto. Al nostro Paese che ci ha messo più di 40 anni per finire un’autostrada. A quel Paese che ricorda con sdegno quell’ex Ministro che disse che «con la cultura non si mangia» ma che sembra sempre seguirne le orme, nonostante le negazioni sperticate di questo “adagio”. Il Paese degli statuti che permettono ai Presidenti di assumere il ruolo di Direttori, senza contare quelli già coperti in altre decine di cariche istituzionali. Il Paese che lascia che i suoi musei vengano usati come parchi espositivi di prosciutti o che mette, ancora, alla direzione di strutture fiore all’occhiello dell’architettura e dell’arte illustri non-competenti in materia di cultura visiva contemporanea.
Davvero stiamo parlando, ancora, dell’importanza dei social network?
Penso sia giunta l’ora, stavolta definitiva, di fermare la macchina impazzita e stordente della chiacchiera e di ricominciare a riconsolidare le fondamenta. Innanzitutto esigendo chiarezza di posizioni, tutele e imponendo anche possibilità di sgravi, facilitazioni, sovvenzioni.
E ben vengano le petizioni, le richieste, le grida di allarme. Ma che si parta dalla BASE. Una casa che crolla non si aggiusta partendo dal tetto, dalla goccia che ha fatto traboccare il vaso, altrimenti sarà sempre e comunque un rattoppo.
Non è la cultura il petrolio italiano? O finora abbiamo fatto solo chiacchiere? Non è forse la cultura (intesa come scienza, arte, filosofia, diritto…) la formula che permette l’avanzamento di una società?
O forse la cultura (sempre in senso generale) è finora stata trattata come merce in svendita, e nemmeno al miglior offerente? Dov’è la TUTELA della cultura, ancora? E non parlo di parchi archeologici e vecchie basiliche messe in sicurezza: parlo di condizioni che permettano il DIRITTO DI LAVORARE A CONDIZIONI UMANE in un determinato settore, tanto agli imprenditori che decidono di investire quanto ai professionisti; parlo di PROFESSIONALITÀ che vanno RICONOSCIUTE, di LAVORI che no, non sono hobbistica. Diciamo insomma che servirebbero AZIONI CONCRETE e quotidiane, non straordinarie.
Tornando all’arte italiana, ora, è ben auspicabile (sempre per usare metafore) che prenda lezioni dall’architettura che, come ben sappiamo, ha regole ben precise.
La cultura italiana, stavolta, dovrà studiarle, seguirle e praticarle nel futuro, se non vorrà di nuovo rischiare di lasciarci le penne per colpa di un virus. Se invece preferite i social network, allora possiamo andare avanti così.