C’era, un tempo, la propaganda, vale a dire, secondo Treccani: un’azione che tende a influire sull’opinione pubblica, orientando verso determinati comportamenti collettivi, e l’insieme dei mezzi con cui viene svolta.
La propaganda aveva dunque un obiettivo preciso e per raggiungerlo coinvolgeva in modo significativo i principali mezzi di comunicazione e di trasmissione di messaggi e contenuti.
Mezzi di comunicazione che, spesso, coinvolgevano quindi le manifestazioni artistiche.
Sono così nate opere d’arte meravigliose e orrende, strumenti attraverso i quali il “potere” si manifestava.
Nella nostra attuale era economica, anche la propaganda ha mutato la propria forma ma, contrariamente a quanto si tenda ad immaginare, la nuova forma della propaganda non sono i social media. È la statistica.
È vero, molti politici fanno un ricorso anche eccessivo delle potenzialità comunicative dei social network, ma quella è solo la superficie che può far breccia sugli utenti non nativi digitali, perché questi ultimi riconoscono in un attimo quando un contenuto è reale e quando è invece frutto di una strategia. È il loro mondo, e lo sanno governare meglio di quanto a volte tendiamo a credere.
Quello che non sanno governare, invece, è il mondo delle statistiche. Strumenti potentissimi che consentono di proiettare, in modo indiretto, una visione di futuro talvolta inesatta e in alcuni casi addirittura distorta.
Prendiamo il caso della cultura. Solo una decina di anni fa, il conlaculturanonsimangia era un hashtag ante-litteram. Oggi, invece, i giornali sono pieni di pensatori della cultura che affermano quanto la cultura sia il vero motore economico del nostro Paese.
Usano report, indagini di mercato, usano comunicazioni istituzionali.
Usano, in altri termini, tutti i mezzi a disposizione per diffondere un messaggio che è irrimediabilmente teso ad influire sull’opinione pubblica, orientando verso determinati comportamenti collettivi.
Questa vulgata istituzionale ha, probabilmente, uno scopo preciso. Nel campo del business, è risaputo che se “vuoi ottenere soldi” devi mostrarti “in crescita”, perché nessuno pagherà i tuoi debiti.
Rappresentare dunque la cultura come un settore in continua espansione è dunque funzionale a far convergere verso essa finanziamenti pubblici e privati, anche in coerenza con le priorità “contenutistiche” che provengono dalla dimensione comunitaria.
Intento nobile, per certi versi, ma molto pericoloso.
Facciamo un esempio concreto: in un recente report Ernst & Young, si legge che, nel 2019, il valore aggiunto generato dal solo settore delle industrie culturali e creative superava quello di Estrazione di Olio e Gas, Aerospazio, Tessile e vestiario e Automotive messe insieme.
Potrebbe essere un dato positivo, certo, ma che potrebbe avere ricadute importanti sul futuro economico del nostro Paese.
Lasciando da parte il COVID, che ormai è una spugna buona a cancellare tutte le debolezze strutturali che esistevano nel nostro Paese da molto prima del 2020, la nostra cara Italia, con il suo patrimonio culturale inestimabile, ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa, e un tasso di occupazione di giovani laureati da rabbrividire.
Fatta eccezione delle superstar, i nostri musei languono, in generale, tra mancanza di fondi, contratti intoccabili spesso figli di un’epoca di familismo amorale e di collaborazioni esterne per sopperire a tali inefficienze senza infrangere le regole in termini di pareggio di bilancio e in termini di assunzioni.
Si badi bene, ciò non significa che la cultura non sia un settore economico di tutto rispetto, ma è pur sempre un settore in cui esiste uno squilibrio tra offerta di lavoro qualificata e effettiva capacità di assorbimento della stessa da parte degli operatori economici (pubblici e privati).
Certo, ci sono poi le industrie creative. Ma anche lì coesistono pochi agglomerati industriali e miriadi di piccoli tentativi di autoimprenditorialità, molti dei quali non sarebbero nati se ci fossero state condizioni di mercato più favorevoli (con imprese che assumevano, ad esempio).
Questa piccola autoimprenditorialità è il frutto della propaganda delle start-up. Fenomeno potenzialmente importantissimo, se solo ci fosse un sistema finanziario e fiscale di supporto che, evidentemente, nel nostro Paese manca.
Bisogna prendere atto che da queste narrazioni possono derivare scelte collettive, quali la scelta della carriera accademica da intraprendere o aprire una società utilizzando i soldi dei genitori come capitale iniziale, entrambe condizioni dalle quali può derivare una tendenziale erosione dei risparmi e non un effetto positivo sull’economia reale nel suo complesso.
È importante, una volta per tutte, affermare che la “profezia che si autoavvera” non si basa sulla semplice “narrazione”. È piuttosto il risultato di una serie di “scelte” che portano, essendo sicuri che si verificherà un evento, a far sì che quell’evento divenga reale.
Quindi può andare anche bene la narrazione della cultura motrice di sviluppo, ma se e soltanto se nel frattempo ci sono azioni reali a sostegno di tale visione.
Se ci limitiamo soltanto a “raccontare”, utilizzando tutti gli aggregati che ci tornano utili, una visione del mondo, e nel frattempo non facciamo nulla, ma nulla, affinché tale visione possa trovare concretezza non facciamo altro che agire da ciarlatani. Venditori di fumo.
La verità è che la cultura, e più nel dettaglio, le industrie culturali e creative, sono un settore con notevole margine di sviluppo, nel quale possono confluire azioni di tipo istituzionale, interventi imprenditoriali di medie dimensioni e anche interessi di natura finanziaria di medio-lungo periodo.
Sono però un settore in cui la mortalità delle imprese è ancora alta, e in cui la concorrenza sul lato dell’offerta del lavoro è molto forte, condizioni che, in genere, conducono alla riduzione del valore-uomo.
Sono un mondo bellissimo e competitivo, che genera valore aggiunto ma che non ha ancora raggiunto una cornice istituzionale di riferimento. Sono un’opportunità di crescita personale e professionale che comporta, anche più che in altri settori, dei rischi, che possono concretizzarsi in precariato, stipendi più bassi rispetto a settori analoghi, e anche disoccupazione.
Sono però un settore nel quale, con competenze diversificate, con coraggio e voglia di investire su sé stessi, si possono ottenere soddisfazioni economiche, anche importanti, e soprattutto, la consapevolezza di aver generato valore per il territorio.
Non sono però la nuova Mecca dell’imprenditoria e della finanza. Non sono l’El Dorado dei futuri laureati.
Sono un settore economico. E in quanto tale, hanno dei costi e dei benefici, che chi decide di intraprendere deve conoscere.
Promuovere la Cultura come il grande boom economico a bordo di Vespa e spaghetti nei pic-nic è irresponsabile.
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