Categorie: Attualità

Curare è tragedia: apologia di un ruolo bistrattato e necessario

di - 15 Marzo 2025

Bistrattati e spesso parodizzati, i curatori appaiono oggi preoccupati e irrequieti: la loro figura è forse in pericolo oppure – forse distopia, forse realtà – destinata a scomparire? Quale è il nuovo stato della curatela e che cosa profondamente significa fare curatela? 
Una premessa: non si tratta di un pezzo futurista, né di un pezzo reazionario, né di un pezzo rivoluzionario, ma di un pezzo politico. Chi scrive vuole solo riaffermare un ruolo professionale così necessario e così al limite tra forze ed equilibri diversi da dover essere osservato alla luce di una prospettiva etica che non sempre viene considerata. Un’ulteriore premessa: non si tratterà di storia della curatela, quella è un’altra disciplina. Sempre chi scrive vuole considerare lo spirito di un tempo, quello presente, in cui, alla fin fine, sarebbe utile abbandonare un certo citazionismo che ci lega ancora ad una prospettiva postmoderna abbastanza antiquata. Non ci saranno riferimenti, anche se parecchi sono già espliciti nel riferimento stesso.

In via del tutto preliminare, partiamo da quel passaggio, primario e necessario, che è la creazione dell’artista. L’artista ricerca, si lascia stimolare dalle proprie suggestioni, per giungere al momento esatto della creazione: contro ogni meccanismo produttivo, teoricamente (ma praticamente no) avverso ad una dinamica di potere, egli spalanca, con le sue opere, quelle profondità ancestrali per cui l’opera attraversa il tempo e lo spazio per farsi veicolo di un significato originale e archetipico. L’artista mira ad estrarre quel concetto e a renderlo in una dimensione più o meno visuale che incrocia i differenti linguaggi per sceglierne uno o più specifici o a-specifici. Didascalico? Forse sì, ma è uno di quegli aspetti irrilevanti del concetto ideale dell’essere artista. Ideale, attenzione, e non ideologico – e quanto è oggi pervasa da ideologie, l’arte?

Qui, entra il gioco il curatore. Un tempo critico, oggi più asservito. Un tempo anche storico, oggi più trasversale. Messianica presenza, più o meno inversa a certe dinamiche di potere, più o meno criticata per via del suo – quasi necessario – personalismo, più o meno corrotta da un certo stile che lo caratterizza e da un certo mercato che fa pressioni stressanti, cerca di proporre un’interpretazione non solo sulla poetica dell’artista, ma sulla natura delle cose in cui l’artista è inserito. Un’architettura di significato che non è necessario che si concretizzi in un sistema fisico – come un’esposizione – ma che può appartenere ad un museo immaginario. Senza pareti, senza limiti circoscritti, questa figura abbraccia l’intero universo costellato dai molteplici artisti per intessere relazioni di significato tra di essi e costruire uno specchio della propria visione della società in cui abita.

Il critico/curatore è quel mediatore necessario nel passaggio tra l’opera d’arte – che può essere parzialmente evocativa e ispirare quell’istinto primordiale circa la natura delle cose – e lo spettatore, il pubblico. Il curatore deve esistere perché deve esistere la mediazione che permette effettivamente all’opera di arrivare nella sua interezza. Non esattamente come l’artista, il curatore deve riuscire a costruire dei percorsi che assorbano l’intero universo della realtà. Non una tuttologia, ma una ripetizione assai snervante di quello che esiste, di quello che non si vede o non si vuole vedere, di quello che certe dinamiche, esacerbate, di potere privilegiano.

Per l’appunto, il curatore dovrebbe essere per sua natura portato a costruire una schietta tautologia: “definizione illusoria, che ripropone in termini solo formalmente diversi l’enunciazione di quanto dovrebbe costituire oggetto di spiegazione o di svolgimento”. A pensarci bene, è esattamente così, poiché è l’opera d’arte in sé a convogliare quanto il curatore può cercare di leggere in essa.

Anche questo didascalico? Forse, altrettanto, sì. Più che didascalico, è di per sé evidente: quale dovrebbe essere il ruolo di una figura di questo tipo se tutto è già, esplicitamente, rivelato? 
Spesso, può accadere di essere vessati da domande alquanto banali: quanto ne capiamo d’arte? Chi capisce qualcosa d’arte? Che cosa significa capirne d’arte? Espandere la domanda in senso più epistemologico, per arrivare a chiedersi quanto effettivamente possiamo capire – nel nostro narcisismo imperante – della realtà che ci circonda potrebbe rischiare di sviare il tema.

Ma, dacché curare presuppone trasportare il fardello, così oneroso da essere insostenibile, di dover spiegare qualcosa a qualcuno – di dover comunicare – forse allora bisognerebbe chiedersi a che cosa debba portare costruire una mostra.
Una mostra è, fondamentalmente, un vasto intreccio di elementi triviali, di cui se ne citano tre per semplicità: il denaro, che permette di svolgere la mostra e che circola con la circolazione delle opere; il senso, che appartiene sia alla mostra che alle stesse opere; il tempo, che è la risorsa che la mostra chiede sia a chi la visita che a chi la costruisce.

Curare è etica. Presuppone che tutta questa serie molteplice di elementi venga considerata per essere equilibrata e per porsi altrettante domande circa la sua necessità. Consumando risorse, una mostra deve essere fatta se è necessaria. Questo, in ogni senso possibile: un’opera d’arte è pensiero che l’artista crea dalla contemporaneità in cui vive; un testo è pensiero sull’opera dell’artista relazionata alla realtà; una visita in mostra è pazienza, ascolto, di quello che qualcuno cerca di dire – a voce più o meno grande. Ed è per questo che ciò che è contemporaneo deve essere trattato in quanto tale: al curatore sta l’onere di costruire un percorso che possa affondare le radici nel tempo in qui questo percorso sta accadendo.

Curare è politica. Presuppone l’interazione tra figure differenti di cui mediare e valorizzare ogni prospettiva. Costruisce ponti, collegamenti, forme trasversali tra diversi portatori d’interesse per avallare un’idea, una ricerca, un concetto che qualcuno riesce ad esprimere. Il curatore dovrebbe essere più interessato all’opera – che, tutti sanno, nell’uso più colloquiale viene definita lavoro dell’artista – che al sistema che l’artista ha dietro di sé. L’opera è il grado zero, è l’elemento subatomico che costruisce il grande mondo dell’arte, e in quanto tale deve essere preservata. È la forma elementare della materia artistica.

Curare è estetica. Presuppone la ricerca spasmodica di una bellezza estrema contenuta in oggetti così preziosi da essere inutili e inutilizzabili. Estetica che non è soltanto ricerca della bellezza, ma sensibilità ai mutamenti sottocutanei che trasformano dall’interno quello spirito del tempo che l’artista esprime con l’opera d’arte. Estetica che è, anche, ricerca speleologica sulle pareti dell’abisso dell’interiorità di ciascun individuo: ha il compito di ridestare, riattivare, qualcosa di così intimo e profondo da poter essere universale e che il curatore, e solo il curatore, può portare all’esterno prelevandolo dall’artista.

Si sentono spesso lamentele diffuse di chi, riferendosi ad una mostra collettiva, può magari pensare che il nome del curatore sia più importante dei nomi degli artisti – quando gli artisti sono molti. In un certo modo, è inevitabile pensarlo, per quanto sia radicalmente sbagliato: l’autore è, fondamentalmente, un regista che coordina più discipline – a volte molto lontane – e permette loro di interagire per arricchire il bagaglio culturale e la conoscenza della collettività. Come la ricerca medica permetterà, un giorno, una certa forma di immortalità, la ricerca artistica dovrebbe riuscire, un giorno, a rispondere a quelle domande impossibili per cui la loro risposta è già di per sé un’utopia.

Curare è, per questo, tragedia. In una lotta costante tra personalità e personalismi, il curatore si trova come una guida – a volte, con molta ironia, più o meno spirituale – che deve condurre il suo piccolo gruppo ristretto di bellissimi intellettualoidi alla fine, all’esaurimento del concetto… alla morte stessa dell’autore che scompare nello stesso momento in cui tutto, improvvisamente, finisce. Le mostre non durano ed è impossibile che i cataloghi – testimonianze storiche a tutti gli effetti, anche nella loro iperproduzione odierna – possano mostrare tutto quell’universo infinitamente complesso che una mostra vuole portare a capo. Fondamentalmente, una frustrazione costante e continua nella ricerca stessa della completezza irraggiungibile.

Perciò, alla luce di tutte queste considerazioni, bisogna riconsiderare il ruolo del curatore come figura necessariamente rivoluzionaria. 

Una mostra storica potrà sicuramente permettersi il lusso di catalogare (con estrema difficoltà e con un tempo necessario immemore) l’intera antologia della vita di uno o più artisti o mostrare quelle trame storiche che hanno visto punti nevralgici allo svolgimento stesso della storia dell’arte – verba, non facta, ma parole che si trasformano nei fatti. Spesso si pensa che questa operazione storica non abbia alcun orientamento personalistico ma è evidente (ed è banale dirlo) che la storia non sia mai un mero ed oggettivo susseguirsi di fatti ma presupponga una certa interpretazione strutturale di matrice più o meno politica al suo interno.

Prima di proseguire, una seconda tipologia di mostre: le mostre di pura ed essenziale ricerca. Queste, non fanno che sbaragliare tutta quella cronologia critica che ci sta tanto a cuore. Si pongono come eventualità unica ed irripetibile per riscrivere le file del tempo su una determinata ricerca e inserirsi nella storia dell’arte come rivoluzione del pensiero. Appartengono ad un tempo, che è il tempo in cui si svolgono, e della lettura autoriale di quello specifico tempo che il curatore riesce a dare. Questa tipologia di mostre permette, innanzitutto, al pubblico di uscire in un certo modo cambiati: a volte, pur non capendo assolutamente niente, si ingenerano riflessioni su quanto ciò che si è osservato sia correlato ai propri traumi, al proprio vissuto. Quello stesso vissuto che, inevitabilmente, antropologicamente e psico-sociologicamente, influenza la stessa fruizione della mostra rivoluzionaria.

Ed è qui che il curatore diventa necessario. Se l’artista agisce come speleologo, analizzando il mondo, scavando e ricercando eternamente tutto ciò che non si vede sotto la superficie fino ad arrivare alle viscere della terra, il curatore non deve comportarsi come il Dio della Genesi, che crea dal nulla (ex nihilo) il mondo, ma come un medico chirurgo. Prima, deve frazionare quanto sta osservando, analizzarne le anatomie e capire quella struttura sepolta sotto l’epidermide per poi inserirsi con le sue incisioni, compiere la sua operazione, e ricucire quelle parti che si sono allontanate.

Per arrivare al punto: da questi passaggi, la vita. Il curatore ha effettivamente realizzato il suo obiettivo. Ha sovvertito l’ordine precedente, distrutto quello stato delle cose, annullato tutto ciò che è egli stesso per affermare l’importanza stessa dell’evidenza. Il principio, quanto più puro, della lotta di classe: un conflitto acceso tra indipendenza scientifica e pensiero critico da un lato e da pressioni di matrice capitalistica dall’altro. La ricerca pura è l’unica forma rivoluzionaria che può permettere l’indipendenza concettuale della ricerca artistica e fondare la sua matrice scientifica e critica, abbattendo quel legame economico che determina il meccanismo del profitto capitalistico. Ripartire dall’arte significa necessariamente annullare questo principio, fuori da ogni interpretazione prettamente marxista, per insistere sulla sua purezza e sulle sue strutture.

Una riflessione che non solo richiede più di un semplice testo di questo tipo per essere articolata, ma che insiste sulla prospettiva – lenta e inesorabile – del pensiero inesauribile. Perché, infondo, la necessità di un’operazione artistica risiede nel suo intento di rappresentare una guerra in atto: la guerra della qualità. Avversi ad un’estetica dell’appiattimento, ad una trasparenza espressiva che, con molta probabilità (ma si capirà solo nel prossimo futuro), riduce il concetto al mero esemplificare qualcosa di così profondamente inutile da annullare anche il più umile intento di approfondire la natura stessa della conoscenza.

La mostra: necessario esito di una lotta che permane anche dopo di essa, perché è sulla precedente che deve passare tutto quel vaglio critico, etico, estetico e politico che può ridestare l’arte dalle sue, perplesse, soluzioni alquanto vicine allo showbiz e all’intrattenimento. Ed è dalle macerie di questa terra desolata perturbante e inquieta che emergono quegli esperimenti radicali delle grandi mostre. Non grandi per via del loro contenuto massiccio; non grandi per via dei loro spazi sterminati per cui percorrerli appare già un esercizio di fitness; non grandi per via del loro intento solenne. Una grandezza che auspica a toccare le vette del pensiero solo dopo che tutto ciò che è stato appare annullato dalla potenza stessa dell’opera d’arte. Perché, e lo hanno detto in molti ma forse è stato dimenticato o omesso troppe volte, è l’opera d’arte che deve stare al centro di quelle connessioni rizomatiche che uniscono ogni aspetto e ogni oggetto e non tutti quei personalismi che la nascondono.

Come in una qualunque foto scattata durante un vernissage in cui tutto un pubblico indifferente a ciò che sta osservando, presente solo ed esclusivamente per via della mondanità dell’evento, copre meticolosamente i meravigliosi dettagli delle opere più minime e decorative.

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