«Ed ora una precisazione, in un servizio del TG1 dedicato alla crisi in Medio Oriente di questi giorni è andata in onda una infografica sbagliata su un testo corretto, un errore del quale ci scusiamo con i nostri telespettatori». Sono circa le 20:10 del 6 gennaio 2020, quando l’anchorman dello statalissimo TG1 Francesco Giorgino, estremamente a suo agio nonostante l’imbracatura da telegiornale nazionale, si scusa dopo che una montante polemica online ha evidenziato il fattaccio. Iran e Iraq vengono colorate di verde mentre l’Arabia Saudita di rosso, con una legenda che, invertendo gli ordini dei fattori, attribuisce la maggioranza sunnita ai primi e quella sciita ai secondi. È pur sempre il 6 gennaio del nuovissimo 2020 e il pubblico contemporaneo può velocemente collezionare una piccola galassia di informazioni tale da renderlo capace di rivendicare di conoscere la sostanziale differenza tra sunniti e sciiti. Che l’erede legittimo di Maometto sia Abu Bakr o Ali, la mattina del 3 gennaio non è stato subito evidente il motivo per il quale i maggiori media nazionali e internazionali avessero attribuito tanto rilievo alla notizia dell’uccisione del generale Soleimani: in fondo, non era una figura nota in occidente se non agli addetti ai lavori.
Già questo basterebbe a evidenziare quanto il mondo dell’informazione, che sembra aver raggiunto picchi di fluidità e interconnessione capillari, sia in realtà tuttora separato in compartimenti stagni su alcune tematiche: anche se si conosce la differenza tra sunniti e sciiti, la realtà, come al solito, è molto più articolata.
In patria il generale era molto noto, in assoluto la seconda personalità, sia in termini operativi che politici, della Repubblica islamica dopo l’Ayatollah Khamenei. Soleimani godeva di uno status di semidivinità ed era una figura quasi sentimentale per la popolazione iraniana. Non soltanto un generale capace sul piano delle operazioni clandestine all’estero, quindi sull’oscuro crinale dell’intelligence e della guerriglia paramilitare. Godeva di uno status mediatico, che lui non aveva peraltro perseguito direttamente e dal quale aveva provato a smarcarsi, pur senza riuscirci, perché considerato, di fatto, l’artefice del puntellamento del regime di Damasco, nonché l’ideatore e l’esecutore di attacchi contro israeliani e americani in tutta la Regione. Già questa dimensione sentimentale basterebbe a segnalare la portata estremamente rischiosa della decisione di eliminarlo – tra l’altro non su un campo di battaglia – presa dagli Stati Uniti.
Al di là della dietrologia elettorale di Trump, che potrebbe essere ricollegata anche alle dinamiche interne all’impeachment, il vero motivo per cui gli Stati Uniti abbiano compiuto un gesto di questa portata non è chiarissimo neanche ai più attenti osservatori.
Se si dovesse restringere l’interpretazione al campo esclusivo del presidente americano, questo episodio si potrebbe allacciare a una sua retorica di matrice elettorale che vede come trofei prima al-Baghdadi, ex capo del sedicente stato islamico, paradossalmente combattuto dagli iraniani (meno paradossale di quanto si possa pensare, in realtà, trattandosi, nel caso del sedicente stato islamico, di un’insurrezione arabo-sunnita, mentre gli iraniani sono, ovviamente, persiani sciiti) e adesso Soleimani, persiano e, per l’appunto, il numero due della Repubblica islamica e la cui strada verso la presidenza era spianata.
Una seconda chiave di lettura va ricercata nella lenta ma fastidiosa ascesa dell’Iran che, agli occhi americani, è senza dubbio la potenza più vicina ad assurgere a uno status semi-egemone. E il mestiere degli Stati Uniti nella regione è, appunto, quello di salvaguardare i propri interessi economici e lo status quo. Il vecchio dividi et impera, insomma. Tuttavia, anche questa analisi appare insufficiente a spiegare un simile attacco, se si tiene conto che l’Iran del 2020 è un Paese percorso da profonde crisi interne, sia sul piano economico che sociale e, quindi, lontano dall’assurgere seriamente a dominus regionale, posizione che tanto terrorizza l’establishment militare e politico degli USA. Una simile mossa ha finito semmai per rafforzare il regime e le celebrazioni funebri, con folle oceaniche e decine di morti dovuti alla calca, ne sono una manifestazione.
Un’altra fazione degli analisti internazionali riconduce l’assassinio di Soleimani a una reazione emotiva dell’amministrazione americana, basata sulla scommessa che l’Iran non avrebbe avuto il coraggio di alimentare uno scontro aperto – in dottrina, “Teoria della probabilità”. In effetti, a sei giorni dall’accaduto, l’Iran ha reagito con il lancio di qualche missile con tanto di preavviso, che non ha provocato vittime. Potrebbe essere una strategia anche questa, difficile non immaginare che le tensioni nella regione non si ripresenteranno in maniera anche più violenta.
Quindi, dove rintracciare la ratio di una simile operazione, avallata tra l’altro dal Pentagono? Forse la risposta è: da nessuna parte. O forse è da rintracciare nella dottrina delle relazioni internazionali e, più nello specifico, nella “Teoria del folle”. La teoria è sostanzialmente basata sullo spaventare i propri nemici convincendoli che li si potrebbe attaccare con reazioni enormemente sproporzionate, cioè da folli. Pare che il concetto sia stato elaborato dal governo laburista di Israele negli anni ‘50 e poi ripreso e fatto proprio da Richard Nixon durante gli anni del conflitto in Vietnam.
Analizzando i tweet del presidente americano nelle ore immediatamente successive all’attacco al generale Soleimani, si possono leggere queste parole: «Questi post serviranno come notifica al Congresso degli Stati Uniti che se l’Iran dovesse colpire qualsiasi persona o bersaglio americano, gli Stati Uniti reagiranno rapidamente e completamente, e forse in modo sproporzionato. Tale avviso legale non è richiesto, ma è comunque dato!».
Se non fosse già abbastanza folle lasciare intendere che un post su Twitter sia valido come notifica al Congresso degli Stati Uniti per eventuali atti di guerra, Trump stesso fa riferimento a reazioni sproporzionate. Nell’incessante flusso di tweet ai quali il presidente americano ci ha abituati è sicuramente da segnalare questo post: «L’Iran sta parlando in modo molto audace di colpire alcuni beni statunitensi come vendetta. Che questo serva da avviso che se l’Iran colpisce qualche americano o beni americani, abbiamo nel mirino 52 siti iraniani (che rappresentano i 52 ostaggi americani presi dall’Iran molti anni fa, ndr), alcuni ad un livello molto alto e importante per l’Iran e la cultura iraniana, e quegli obiettivi e l’Iran stesso, saranno colpiti molto velocemente e molto duramente. Gli Stati Uniti non vogliono più minacce!».
Minacciare via Twitter di commettere simili crimini di guerra, ricalcando del resto il triste esempio dell’ISIS, sembra ricollegarsi a una strategia di follia retorica, più che a una reale volontà, considerata la fretta con cui l’amministrazione americana e lo stesso Trump hanno poi smentito.
Col senno di poi si potrà definire il reale motivo dell’attacco americano, forse. Per ora, quel che è tangibile è l’enorme eco mediatica scatenata dell’assassinio chirurgico di un generale pressoché sconosciuto in questa fetta di mondo, nonché l’isteria collettiva suscitata per l’eventualità di una imminente terza guerra mondiale. Non è prevista e non ci sarà nessuna terza guerra mondiale adesso, semplicemente perché nessuna delle parti può permettersela. La destabilizzazione resta il fiore all’occhiello di Mr. President of the USA. E perfino Soulemani, l’uomo un tempo noto come “il martire vivente”, si troverebbe d’accordo con questo inammissibile gioco del caos.
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