La notizia è di qualche giorno fa. Don Draper, protagonista della pluripremiata serie tv Mad Men, ideata da Matthew Weiner e trasmessa dal 2007 al 2015 dalla AMC, ci lascerà: ancora pochi giorni e non potremo più ammirare su Netflix le battute, le frasi tranchant e gli sguardi ombrosi dell’affascinante capo del reparto creativo della Sterling & Cooper, immaginaria società di comunicazione della New York della Golden Age, gli anni ’60. La decisione della società di Los Gatos, ormai paniere dell’entertainment digitale, di snellire il suo catalogo, tagliando i prodotti più datati anche se di alta qualità e molto apprezzati, è di routine.
Ma ciò che sorprende è il timing. Don ci molla proprio ora, in questo momento di buio, di slow-down generalizzato in cui non si sono affastellate soltanto paure e angosce ma dove c’è stato anche il tempo per fermarsi e ricordare.
Se tutto l’historical drama di Mad Men è giocato sulla memoria, sulla dimensione emotiva scavata, sull’avventura di una vita perduta e ritrovata (la doppia identità di Don Draper / Dick Whitman), l’incredibile lavoro di Weiner ci ha suggerito che non siamo fatti di soli film, canzoni, letture o eventi del passato. Più del culto estetico dell’eleganza, suscitato dai tagli Prince of Galles del boss Roger Sterling, dagli shiny buttons degli abiti della segretaria Joan Holloway, dalle nuvole di fumo delle sigarette di Betty Draper, moglie di Don dalle cravatte di seta, è soprattutto il feticismo delle merci, dei prodotti semplici e quotidiani, a travolgerci nel turbinio delle emozioni: i vecchi slogan, jingle e bozzetti degli advertising di Playtex, Coca-Cola, Kodak, Lucky Strike, Samsonite, Tampax, feticci di una memoria sbiadita ma vivissima.
De resto, come i nostri “Aperol, ti sveglia l’appetito”, “Simmenthal, è così semplice!”, “Ritmo. Il diavolo e l’acqua santa”, “Bulgari, la merendina dal cuore tenero!”. Quello pubblicitario è linguaggio comune, universale. Ma anche oggetti d’arte, menzogne legalizzate, con cui evitiamo la «pesante responsabilità di immaginare e di rappresentarci il mondo». Fino al miracolo, per Jean Baudrillard, di scalzare il prodotto stesso e diventare merce di sé stessa: «Esiste una vita al di fuori dei cartelloni pubblicitari», ribadiva il sociologo francese. Ma la felicità per Don sta tutta nel sorriso di una bella ragazza su un cartellone pubblicitario, mentre sfrecciamo con una Chrysler Imperial Crown Convertible lasciandoci tutti i pensieri alle spalle.
È la ricerca dell’attimo, dell’“essenziale”. E se le nostre menti sono state educate alla compulsiva «erotizzazione della scelta», lo dobbiamo a quel manipolo di stregoni tra la 5° e Park Avenue, che giocherellavano con i nostri desideri, con le nostre aspirazioni e fantasie. I Mad Men ci sono apparsi da subito familiari. Ma oggi, le raffinate analisi di un Baudrillard e le atmosfere del consumismo americano rischiano di essere cancellate, proprio come una serie tv, proprio come Mad Men da Netflix. La materia sembra tornata a essere dura, tagliente, sconosciuta.
L’impossibilità di coniugare antichi sistemi di vita a nord dello Yangtze (il Fiume Azzurro) e la vorticosa proiezione globale dell’universo-Cina, ha reso inevitabile la nostra fuga in una dimensione cyberpunk e robinsoniana. Così come è sfuggito allo human control la grande battaglia tra il coronavirus e gli algoritmi, con informatica quantistica e intelligenze artificiali impiegate per trovare nuovi composti farmaceutici e innovativi sistemi di mitigazione della pandemia.
E mentre the Americans battevano ritirata con le orribili scene delle fosse comuni di New York e dei 30 milioni di disoccupati senza assistenza medica, Wuhan si trasformava in un grande laboratorio a cielo aperto. Termometri laser all’esterno di ogni condominio, app per tracking di soggetti positivi e droni per i riconoscimenti facciali, termografi in aeroporti, metropolitane e centri commerciali. Perfezionati per renderci “micro-bersagli d’interesse commerciale”, motori di ricerca, social e piattaforme per video call, in questa fase, vengono reimpiegati per renderci bersagli tracciabili e misurabili biometricamente. Prassi per noi invasive ma non per milioni di cittadini cinesi, più tolleranti verso il proprio governo, anche se mai proni.
E tornerà utile perfino il Social Credit System, un sistema di banche dati – capillare soprattutto nello Hubei, con 400 database – da cui attingere per incrociare informazioni su individui e aziende in Cina. La scelta di prodotti alimentari freschi e salutari, di giornali e attività online favorevoli al Partito, le donazioni di sangue, il volontariato per gli anziani, sono pratiche fondamentali per acquisire punteggio e ricevere numerosi benefit: ricoveri ospedalieri, linee di credito, hotel di lusso, le migliori università per i figli e gli scatti di carriera.
Tracciamento e score-rating diventano dunque spin per nuove tassonomie di comportamento. Se gli uomini di Mad Men rappresentavano il potere delle Companies, ispiravano anche micro-rivoluzioni continue, nel gusto, nelle abitudini, nelle pratiche artistiche. Ma ormai siamo entrati nel secolo cinese. Nel secolo dei corpi. Tracciare soma, non menti da convincere e ammaliare ma da condurre.
Cosa penserebbe Don di tutto questo? Gli diremmo che in fondo non è molto diverso da quello che fanno le americanissime Netflix, Google e Facebook, tra cui rilevazioni di reazioni emotive, preferenze politiche e riconoscimenti facciali. Niente di dissimile dalle procedure usate dalle banche per concedere prestiti o dal governo americano, che seleziona gli immigrati più qualificati e controlla i soggetti più pericolosi. Status in Occidente, reputation state in Cina. Il mercato ha i suoi comparti chiusi, certo. Quello cinese invece è un sistema aperto, che si sta espandendo e indirizza condotte votate alla sincerità sociale e commerciale. Non troppo distante in fondo dalla loyalty dei clienti, invocata più volte da Draper e dalla Sterling & Cooper.
Insomma, stiamo veramente lasciando il secolo americano, il secolo dei creativi? Mad Men se ne andrà da Netflix ed è un passaggio di consegna. «Non sanno fare il nostro il nostro lavoro, per questo ci odiano», confidava Don alla segretaria Peggy. Chissà come sorriderebbe un algoritmo, se avesse la bocca.
Alle Gallerie d'Italia di Vicenza, in mostra la scultura del Settecento di Francesco Bertos in dialogo con il capolavoro "Caduta…
La capitale coreana si prepara alla quinta edizione della Seoul Biennale of Architecture and Urbanism. In che modo questa manifestazione…
Giulia Cavaliere ricostruisce la storia di Francesca Alinovi attraverso un breve viaggio che parte e finisce nella sua abitazione bolognese,…
Due "scugnizzi" si imbarcano per l'America per sfuggire alla povertà. La recensione del nuovo (e particolarmente riuscito) film di Salvatores,…
Il collezionista Francesco Galvagno ci racconta come nasce e si sviluppa una raccolta d’arte, a margine di un’ampia mostra di…
La Galleria Alberta Pane, 193 Gallery, Spazio Penini e Galleria 10 & zero uno sono quattro delle voci che animano…