Si può considerare il web un nuovo continente deterritorializzato? Digital. A Continent è la ricerca sviluppata da Vera Buhlmann e pubblicata da Birkhauser nel dicembre scorso. Vera Buhlmann insegna teoria dell’architettura al Politecnico di Vienna. Il suo lavoro è molto influenzato da Michel Serres, il filosofo francese autore di vari saggi che ragionano sul rapporto tra scienza, filosofia e arte, autore di Le origini della geometria. Similmente a un continente materiale, anche quello digitale dovrebbe dotarsi di una sua struttura politica stabile e di una lingua, afferma la Buhlmann, che non può che nascere dal linguaggio del coding. Se dobbiamo essere cittadini di questo continente immateriale, ci dev’essere allora un quadro chiaro di legalità condivisa. Secondo la Buhlmann la tecnologia digitale può essere inquadrata all’interno di un modello basato su una “fisica comunicativa” in cui poetica e pensiero matematico si scambiano informazioni. La comprensione che abbiamo di noi stessi e di tale tecnologia può sviluppare nozioni sui molteplici modi in cui energia, forma e intelletto interagiscono in un’architettura globale.
Le questioni teoriche avanzate dalla ricercatrice austriaca si schierano a favore di un modo di pensare la dimensione digitale vicino a un nuovo materialismo. Lo spazio digitale, che può essere paragonato a una dimensione metafisica, tende a concretizzarsi diventando materia. Si tratta di una costruzione filosofica per certi versi simile al recente pensiero della “metafisica concreta” di Massimo Cacciari. Tutto ciò va ben oltre il concetto di “classe virtuale” definito da Arthur Kroker, l’autore che alla nascita di Internet intravvide nel web la formazione di una nuova classe sociale di cittadini digitali in grado di superare gli schematismi novecenteschi: la “Virtual Class”. Sebbene tali teorie possano essere lette come osservazioni un po’ astratte, è evidente che l’espansione e l’organizzazione del web abbia prodotto tangibili e rivoluzionarie ricadute nel mondo materiale. Basti pensare al tema della guerra che oramai si combatte sempre più anche nel continente digitale tramite sistemi che attivano potenti droni distruttivi perfino comandati in sciami dall’IA, o con attacchi hacker che realmente destabilizzano perfino l’economia di intere nazioni, o ancora mediante l’intelligenza artificiale generativa che consente sempre meno agli umani di distinguere la realtà dalla finzione mettendo perfino a rischio l’ordine mondiale.
C’è chi da un’altra prospettiva osserva come un continente fisico, specie quello africano, possa essere considerato il più autentico e contemporaneo continente digitale. Se nella prima fase di Internet è affiorata una classe virtuale elitaria, disponente di un nuovo potere dell’informazione tramite cui guida i destini dell’economia e della cultura, dal 2018 si è incrementata una connettività di massa che ha toccato di meno i paesi avanzati. Il libro The Digital Continent (Oxford University Press, 2022) scritto da Mohammad Amir Anwar e Mark Graham è frutto di una ricerca svolta tra Sudafrica, Kenya, Nigeria, Ghana e Uganda. Gli autori hanno scoperto in Africa aziende tecnologiche che operano in zone rurali all’interno di uffici ricavati in vecchi container. Qui lavorano giovani sviluppatori per due dollari all’ora, distribuiti su tre turni, occupandosi di machine learning per addestrare i sistemi d’intelligenza artificiale di grandi società statunitensi impegnate nella produzione di veicoli a guida autonoma o di altri beni e servizi avanzati. Il loro compito primario è quello di taggare qualsiasi tipo di oggetto esistente all’interno di immagini provenienti da ogni parte del globo che raffigurano paesaggi da loro mai visti o mai visitati.
Il blog ModernGhana, lanciato ufficialmente nel 2005 ad Amsterdam da un giovane ghanese sta diventando un aggregatore di notizie che risponde alla crescente domanda d’informazione proveniente dal continente africano. Qui si analizzano gli effetti dell’allargamento della Rete, cosa che apporterebbe molti vantaggi anche alle regioni rurali mediante la telemedicina, l’istruzione a distanza o l’agricoltura. L’opinionista canadese Naseem Javed, presidente di Expoton Worldwide, osserva in un suo recente articolo che le PMI africane ad alto potenziale digitale realizzeranno nei prossimi anni risultati simili a ciò che l’America ha raggiunto nel secolo scorso. Javed conclude che al volume sterminato di dati che i costosi supercomputer nordamericani sono ora in grado di elaborare, si confronterà sempre di più in futuro la rete di milioni di PMI africane in grado di sviluppare lo stesso miliardo di dati usando una moltitudine di computer da pochi dollari: la massa si sostituisce all’élite.
Ma è tutto positivo l’impatto delle nuove tecnologie in Africa? Si innescano qui questioni abbastanza profonde che toccano la geofilosofia. I rischi di una nuova colonizzazione occidentale o asiatica, tramite il canale digitale, esistono. Lo sostiene Seydina Moussa Ndiaye uno dei responsabili dell’attuazione dell’Università virtuale elettronica panafricana PAVEU e dello sviluppo strategico panafricano sull’intelligenza artificiale, il quale mette in guardia dall’utilizzare la forza-lavoro come cavia per nuove sperimentazioni IA (per esempio in campo biomedico). Seydina Moussa Ndiaye è inoltre uno dei membri del nuovo organo consultivo delle Nazioni Unite sull’apprendimento automatico e coordinatore del progetto per l’acquisizione del supercomputer senegalese Taouey capace di risolvere in un solo secondo più operazioni di quante il cervello umano può elaborarne in mille anni. Taouey dovrà risolvere problemi complessi come la gestione delle acque o l’ottimizzazione agricola dei suoli.
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