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«I greci hanno tre parole per indicare l’amore. La prima è la philìa, un tipo di amore che implica una simpatia e nasce tra due persone che stanno bene insieme. La seconda è agape, l’amore incondizionato di un genitore per un figlio, o tra chi si sente parte della stessa famiglia. La terza, eros, non ha bisogno di spiegazioni – attrazione, scintilla, il desiderio di un corpo che cerca appagamento in un altro corpo» inizia così il romanzo di Luna McNamara, Psiche e Amore.
Bisogna partire dai mostri, dalle chimere, dai giganti sociali e culturali; serve guardare gli spazi, le geografie e cartografie corporee, identitarie e trasdotte; occorre occupare le strade, i palazzi e le vite ricche, amorfe e profanate.
Si è da poco chiuso il mese del Pride, giugno è andato via consumato e arricchito da proteste e colori. Le città hanno cambiato aspetto, si sono tinte di arte e di musica. L’aria sembrava carica di energia elettrica, una forza spinta dall’amore e dal cambiamento che profumava ogni anfratto di vita, di tempo e di spazio. Il Pride Month si è riempito di moltitudini, di corpi performativi che mettevano in scena semplicemente se stessi; di eventi culturali dove la cultura era queer, ampia e libera; di opere e mostre che hanno raccontato momenti di protesta e altri modi d’essere, di apparire e di esistere. Si è mostrata una comunità attiva che contrasta intellettualmente e politicamente l’ondata di odio e di intolleranza che dilaga in Europa, a casa nostra, in Italia.
Il Pride, con la sua marcia, diventa un momento di lotta pacifica, una sospensione dei giudizi, un atto di disobbedienza che sfugge alla norma. Esso è sempre stato un momento di lotta, partendo dal mitico tacco lanciato nella notte fra il 27 e il 28 giugno del 1969, che diede inizio ai moti di Stonewall, fino al più piccolo cartello che ha marciato in questo Pride. La lotta c’è sempre stata, il desiderio, il dissenso, la fuoriuscita dalla norma ha sempre trovato il proprio sfogo. Perché il Pride non è solo una marcia per i diritti della comunità queer, LGBTQIA+, ma è una marcia per le sussistenze, per dire io esisto, per mostrare che non si è soli. È una parata d’amore, di lotta per quell’amore, di essere presenti per quell’amore. «Vorrei amare da morire, non morire perché amo», riporta un’opera di Valerio Eliogabalo Torrisi.
Il momento del Pride è quel momento in cui le infiorescenze crescono, i corpi diventano pura arte, le esistenze si mostrano per riversarsi in paesaggi polimorfi, dove le differenze accrescono e non limitano. Ma se il Pride, il momento della marcia è solo un attimo, le energie non si silenziano, non si fermano, la lotta e la rivendicazione dell’essere non possono sciogliersi il 1° luglio.
Ecco allora La Biennale Arte 2024 (qui quello che abbiamo scritto), dal titolo Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, che diventa un conglomerato queer, un inno allo straniero, alla polimorfità. Ma ci sono anche i corpi performativi di Martina Rota che, nell’opera With All My Strength, affrontano il concetto di mascolinità oggi, in cui il posing diventa vogueing e infine cruising. Un tentativo di andare oltre le narrazioni che fanno del corpo muscoloso un veicolo espressivo della violenza patriarcale. Ma la lotta queer continua anche con i corsetti, con i vestiti di Lorenzo Seghezzi, in cui il tessuto diventa armatura della fluidità e veicolo di una rivoluzione queer che parte dagli strati più esterni.
Ci sono anche le opere testuali di Sara Leghissa, in cui la lotta queer diventa indissolubilmente legata alla lotta ecologica, sociale, di una Palestina libera, del diritto allo studio, dei diritti degli operai e di sussistenze sociali.
Seguono i corpi polimorfi di Roberto Amoroso, in cui i corpi si trasformano in un inno all’apertura, alla metamorfosi visiva, ai mostri dalla sessualità plurima. Ma si potrebbe parlare anche della voce di Giorgio Umberto Bozzo, col suo podcast Le radici dell’orgoglio, in cui ripercorre la storia del movimento F.U.O.R.I. e di oltre cinquant’anni di storia della resistenza queer italiana. La lotta queer si manifesta nei festival d’arte e di cultura, come Meteore Fest, un’esperienza ampia in cui “frammenti di asteroidi spaziali” fluttuano in altri luoghi, in altri tempi e in diversi corpi, per mostrarci possibilità dell’essere e spazi interstiziali dove la cultura prolifica.
La lotta queer non si ferma, non si accende solo nel mese di giugno, avanza nel tempo e lo abita nella sua totalità, mostrando come la cultura non si zittisce, non si arresta e non bisbiglia. Occorre non dimenticare quell’energia del Pride, quella forza nell’essere attivi e presenti.
«Se l’amore senza fine era davvero un sogno, era un sogno comune a tutti, ancor più comune del sogno dell’immortalità» Scott Spencer in Un amore senza fine.