Chissà cosa avrebbe pensato il Generale Robert Edward Lee, genio militare e comandante in capo dell’Esercito Confederato, uno dei protagonisti della Guerra di Secessione americana (1861-1865) se avesse osservato con i propri occhi, così abituati a eventi gloriosi e luttuosi, la scena a cui i suoi conterranei della Virginia, gli abitanti di Richmond, hanno assistito in questi giorni. La sua imponente statua equestre di sei metri smantellata, divelta dal piedistallo e portata via. Ne avrebbe sicuramente sofferto. Ma la sorpresa più grande sarebbe giunta qualora, impossibilitato a non seguire con struggente curiosità il convoglio adibito al trasporto del proprio monumento, avesse scoperto una verità ancora più impensabile. La propria effige in bronzo che viene portata con cura all’interno del Black History Museum. Non proprio l’esito sperato. Così hanno deciso il governatore della Virginia Ralph Northam e il sindaco di Richmond Levar Stoney, affidando questo importante (e ingombrante) pezzo di storia americana al museo fondato nel 1981 e impegnato nella difficile opera di diffusione della storia, dell’arte e della cultura dei neri d’America.
In realtà, il Generale e il suo alter-ego di bronzo possono ritenersi “fortunati”, rispetto ai tantissimi monumenti che in questi anni hanno avuto sorte ben diversa. Le statue di Cristoforo Colombo, i conquistadores Pedro de Valdivia, Diego Portales, Sebastián de Belalcázar, la regina spagnola Isabella di Castiglia, Junípero Serra (fondatore delle prime missioni in California) e a Bristol quella di Edward Colston, mercante di schiavi inglese. Per Sandra Borda, professoressa dell’Università di Los Andes, questi non sono gesti che cancellano la Storia. Quest’ultima «Si scrive nei libri. I monumenti invece si fanno per onorare gli eventi dei quali un Paese è orgoglioso e sui quali vuole riflettere». D’altronde nessuno ha parlato di atti vandalici o di damnatio memoriae quando le teste di Lenin, le barbe di Karl Marx e i Ray-Ban di Saddam Hussein rotolavano per terra, effetti di rivoluzioni più o meno riuscite. La rabbia dei vincitori o, semplicemente, di chi sopravvive è legittima e comprensibile.
Eppure il caso del Generale Lee ha qualche sfumatura diversa. Innanzitutto il contesto. La statua equestre era stata al centro di numerose manifestazioni e proteste operate dal movimento Black Lives Matter, organizzazione nata nel 2013 negli Stati Uniti in seguito a numerosi casi di omicidi di ragazzi afro-americani coinvolti in sparatorie, fermi e pratiche brutali delle polizie metropolitane. I nomi sono tanti: Trayvon Martin, Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, Michael Brown con le rivolte di Ferguson fino ai casi di Eric Garner e George Floyd, ricordati dalla drammatica frase, “I can’t breathe”, perché soffocati dalle violente pratiche di arresto delle forze di polizia. La mission dell’organizzazione è quella di «sradicare la supremazia bianca e intervenire contro le violenze inflitte alle comunità nere dallo stato e dalle sue forze armate». Qualcosa che il Generale Lee conosceva bene ai suoi tempi, quando le condizioni di milioni di schiavi afro-americani nelle piantagioni di tabacco, zucchero e indaco erano di totale sottomissione economica, sociale e soprattutto politica.
Eppure questi simboli della White America sono lì da centinaia di anni e hanno attraversato numerose ondate di violenza, indignazione e rabbia della comunità afro-americana. Le rivolte studentesche del 1962 nello Stato del Mississippi, gli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy, l’ascesa del Black Panther Party, di Malcolm X, i pugni neri sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico di Smith e Carlos nel 1968, i riot di Los Angeles del 1992. Perché proprio adesso queste espressioni di rabbia e rivolta contro questi manufatti?
Probabilmente perché stiamo vivendo una lunga fase di passaggio, in cui le vecchie élite bianche passano la mano, cambiano, mutano atteggiamenti, si aprono a nuove idee o più semplicmente non sono più in grado di difendere simboli e figure del passato (dunque del loro potere). E così due protagonisti di questo cambiamento, il governatore della Virginia e il sindaco di Richmond hanno così deciso di inaugurare un nuovo corso. Accettare negli ambienti del Black History Museum la statua che glorificava il soldato che più di tutti ha legato il proprio nome alla difesa di un il modello di società basata sullo sfruttamento e sulla schiavitù degli individui può essere un primo passo per una futura conciliazione sociale e storica? Chissà.
Intanto è già molto importante prendersi il tempo per decidere cosa fare. Un’altra statua di Lee abbattuta a Charlottesville (altro teatro di rivolte a seguito di manifestazioni di suprematisti bianchi) sarà fusa e trasformata in una opera d’arte dal Jefferson School African American Heritage Center. Mentre l’artista Andrea Bowers ha presentato al Museum of Contemporary Art di Chicago “The Black Girlhood Altar”, un’installazione temporanea creata per permettere alle comunità di Chicago di raccogliersi e ricordare le donne nere vittime di violenze e omicidi. «Si tratta di sopportare un trauma, rivendicarlo per se stessi onorando le persone che ne sono state coinvolte», ha affermato Scheherazade Tillet, fondatrice dell’organizzazione A Long Walk Home, responsabile del progetto.
Forse la stagione della rabbia volge al termine? Forse si fa largo l’esigenza di una fase nuova, la necessità di fermarsi, riflettere, di parlarsi? Magari anche sfruttando il grande potenziale delle arti e la loro intrinseca capacità di racconto, di simbolizzazione delle storie e dei significati sociali e politici. Chissà. Ma probabilmente, se Lee potesse, scenderebbe da quel cavallo di bronzo, si metterebbe intorno a un fuoco davanti a una padella di fagioli del Texas e chiederebbe davanti a tutti «Forgive me!» per le sue azioni, le sue idee, i suoi errori.
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Stranamente le statue del negriero garibaldi e dei colonialisti savoia non vengono toccate. Che la massoneria sia intoccabile?!
Non condivido il fatto che i monumenti della acw siano stati abbattuti, lee poi era contrario alla schiavitu' ,era compagno a west point di Grant,Custer ecc... Scelsce la confederazione x appartenenza, se vogliamo il generale Sherman commise deri crimini facendo terra bruciata' nei territori sudisti, la guerra e' guerra cosa c'entrano i misfatti di ora contro le comunita' di colore,ancora piu' aberrante rinnegare la bandiera confederata. Il popolo americano non ha la nostra cultura del rispetto del passato( il loro breve) speriamo che in Italia il finto puritanesimo made in Usa non si propaghi! Altrimenti anche il Colosseo e'risc hio