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A Parigi gli artisti difendono il Palais de Tokyo, accusato di fare propaganda woke
Attualità
di redazione
Più di 2mila persone, tra artisti, curatrici, direttrici di istituzioni, lavoratori e lavoratrici dell’arte e della cultura, hanno firmato una lettera di supporto al Palais de Tokyo. La scorsa settimana, infatti, il museo d’arte contemporanea di Parigi era finito al centro di una polemica, dopo che una mecenate di lunga data, la collezionista di origini brasiliane Sandra Hegedüs, aveva deciso di interrompere ogni tipo di rapporto con l’istituzione, considerata filopalestinese. «Non voglio più essere associata al nuovo orientamento troppo politico del Museo. La programmazione ormai sembra dettata dalla difesa di “cause” fin troppo schierate (woke, anticapitalismo, pro Palestina…)»: per la collezionista classe 1964, che si definisce «Orgogliosamente sionista» e che ha pubblicato molti post di sostegno a Israele, alcune scelte recenti del Palais de Tokyo sono state «Moralmente problematiche», si leggeva nella sua dichiarazione.
La lettera in supporto al Palais de Tokyo
In una lettera aperta pubblicata per la prima volta su Le Monde lunedì e condivisa anche dalla DCA, una rete di musei d’arte contemporanea francesi, i firmatari hanno spiegato che la situazione rappresenta una potenziale minaccia alla libertà delle istituzioni. «Recentemente si è registrato un preoccupante aumento di accuse e attacchi rivolti alle istituzioni culturali in Francia e in altre parti del mondo. In nome di cause politiche, sono stati denunciati per aver consapevolmente sostenuto o mancato di sostenere alcune ideologie, per aver offerto una rappresentanza eccessiva o insufficiente dei problemi e delle questioni che la società deve affrontare. Ciò ha provocato un aumento dei tentativi di intimidazione, delle richieste di censura, delle campagne diffamatorie e della proliferazione di false informazioni nei loro confronti», si legge nella lettera, firmata da personalità di primo piano nel mondo dell’arte, come gli artisti Ivan Argote, Cécile B. Evans, Éric Baudelaire, Camille Henrot, Pierre Huygue e Massinissa Selmani. Tra gli altri firmatari, anche Francesca Corona, direttrice artistica del Festival d’Automne di Parigi, Emmanuel Demarcy-Mota, direttore del Théâtre de la Ville, Alexia Fabre, direttrice del Beaux-Arts de Paris, Mathieu Potte-Bonneville, direttore di dipartimento del Centre Pompidou, Antonia Scintilla, direttrice della Fondation Pernod Ricard, Sam Stourdzé, direttore dell’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, e lo stesso Laurent Dumas, presidente del consiglio di amministrazione del Palais de Tokyo.
«Il Palais de Tokyo, già preso di mira nel 2023 durante la mostra dell’opera di Miriam Cahn Fuck Abstraction, è stato ora accusato da un mecenate di organizzare un programma “dettato dalla promozione di cause altamente orientate”», continua la lettera, citando le parole di Sandra Hegedüs. «Come abbiamo visto in passato e in altri contesti, tali affermazioni e la loro diffusione attraverso un tribunale popolare sui social media sono pericolose per il mondo dell’arte, per gli artisti, per la libertà istituzionale e per la nostra democrazia. A nome di DCA – Rete nazionale francese dei centri d’arte contemporanea, desideriamo esprimere il nostro sostegno al Palais de Tokyo e con esso il nostro sostegno a tutte le istituzioni culturali che si trovano ad affrontare questo tipo di attacchi in tutto il mondo».
Il rischio per le istituzioni culturali e per gli operatori
Il pericolo è tanto più alto quanto si affida il dibattito alla gestione dei social network, il cui sistema non fa che aumentare la confusione e la polarizzazione delle posizioni. In Francia, infatti, la stampa conservatrice ha colto l’occasione. La testata di destra e autodefinitasi “reazionaria” Causeur, ha accusato il Palais de Tokyo di fare opera di «Propaganda» attraverso la sua attività espositiva, seguendo la scia della lettera di Hegedüs. Philippe Dian, presidente degli Amis du Palais de Tokyo, aveva già affermato che il compito della sua associazione non è quello di “Giudicare la programmazione del museo».
«Le istituzioni artistiche basano il loro lavoro sulla ricerca condotta da curatori, ricercatori e altri professionisti. Il loro scopo è problematizzare, contestualizzare e mettere le cose in prospettiva per offrire ai visitatori programmi artistici che – lungi dal risolvere dibattiti esistenti o prendere posizioni di parte – li arricchiscono da una prospettiva critica», continua la lettera. «Come l’arte e gli artisti, le nostre istituzioni culturali devono rimanere libere, altrimenti rischiano di scomparire. Per rimanere liberi, devono poter lavorare con la professionalità e la serenità che consentono loro di creare le condizioni per il confronto di idee che è al centro della loro missione».
L’anguria del Burning Man
Intanto, come riportato da Hyperallergic, l’organizzazione del Burning Man, il mitico festival di otto giorni che si svolge nel deserto di Black Rock City, negli Stati Uniti, ha tolto un’opera d’arte pro-Palestina dal suo sito web, pochi giorni dopo una petizione di Change.org che chiedeva di rimuoverla. Gli autori della petizione hanno affermato che il titolo dell’opera, From the River to the Sea, Dal fiume al mare, utilizza «Un linguaggio che sostiene l’annientamento di Israele». L’opera, una installazione ambientale in fibra di vetro, non era stata ancora realizzati ma era a forma di anguria, uno dei principali simboli della resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Il titolo si riferisce allo slogan diffuso durante le proteste internazionali contro i bombardamenti israeliani su Gaza, che hanno portato alla morte di oltre 35mila persone.
L’autore della petizione ha definito il titolo dell’opera «Un grido di battaglia che legittima la violenza contro il popolo ebraico» e ha citato la risoluzione della Corte degli Stati Uniti che, il mese scorso, ha dichiarato la frase antisemita.
In occasione del festival vengono presentate molte installazioni spettacolari in progetti ufficiali e prodotti dal Burning Man ma l’organizzazione invita tutti i partecipanti a dare sfogo alla propria creatività. L’anguria gigante era tra quelle proposte per la realizzazione ed era stata presentata da un non meglio identificato autore o collettivo chiamato Decolonize Now, con sede a Gaza. A differenza della maggior parte dei contributi proposti, in questo caso l’autore non aveva inserito informazioni di contatto o collegamenti al sito web.