La Germania riapre, la Svizzera ha segnato sul calendario la sua data di ripresa, l’Austria pure. Gli Stati Uniti nemmeno a parlarne. Il Brasile è diviso tra chi scende in piazza (pro-Bolsonaro) per protestare contro il lockdown e chi resta a casa. Nel nord Europa, di nuovo, si circola liberamente. L’Italia, ancora per due settimane – salvo stravolgimenti d’agenda – è inchiodata al palo, mentre la pancia dei cittadini sempre di più mormora. Anche se ancora in pochi hanno il coraggio di dichiarare apertamente le proprie impressioni: ancora troppo forte la coscienza dell’ammonimento. Tra le decisioni ancora da prendere vi sono quelle riguardanti il comparto culturale, la riapertura di musei statali e non. Il Presidente del Mart di Rovereto, Vittorio Sgarbi, come al solito avrebbe le idee ben chiare sul da farsi. Lo abbiamo raggiunto per riflettere su questo tema non più occultabile dietro a uno “state a casa”.
Si parla della fase due, di riaperture. Il Presidente del Veneto, Zaia, ha dichiarato che il lockdown potrebbe già essere interrotto; il Paese è in sofferenza economica e la popolazione in sofferenza psicologica. Dalle posizioni ufficiali si parla di tutto tranne che di una riapertura dei musei. Persino nelle fake news si riportano date relative a riaperture di esercizi vari ed eventuali, ma dei luoghi culturali si tace…perché?
«Perché sono considerati superflui e marginali rispetto ai temi del lavoro e della sanità e dell’occupazione, sono intesi come beni voluttuari. Ho fatto numerosi appelli e ho avuto risposte più deboli che in altre situazioni. L’emergenza ha fatto sì che questa questione della riapertura dei musei risulti facoltativa o non fondamentale. Per cui in tutte le prospettazioni delle prossime aperture dei musei non si parla. Ho parlato dei musei come realtà che offrono un servizio pubblico, perché è evidente che l’indice di civiltà di un popolo si manifesta anche nella sua capacità di capire che la cultura è essenziale. Ho provato a insistere con il Ministro Dario Franceschini nella Commissione Cultura, con un appello sul Corriere, per un “riapriteli”. Pensiamoci razionalmente: le librerie, per esempio, hanno scaffali più stretti, i libri passano di mano in mano; la tattilità di una libreria, di un negozio, di un supermercato è molto meno sana di quella di un museo dove non si possono toccare né i quadri, né le sculture. Entrando in un museo è decisamente più facile essere messi in condizioni di sicurezza, per esempio mantenendo la distanza di un metro uno dall’altro. Era la proposta che avevo fatto per il Mart prima della chiusura generale. A Palazzo dei Diamanti, dove è in corso la mostra di Banksy proponevo la formula del biglietto solo online».
Ci spieghi meglio questa proposta…
«Se io in un giorno programmo di “staccare” al massimo 300 o 400 biglietti potrò far entrare il pubblico dividendolo in blocchi di 10 persone ogni 10 minuti, per esempio, così da mantenere in ogni sala la distanza di almeno un metro uno dall’altro e senza congestionare gli spazi. In questo modo ho la possibilità di sapere quanti biglietti posso dare in un giorno. Questa formula l’ho suggerita ad alcuni Presidenti di Regione per attivare immediatamente la riapertura delle mostre. La mostra di Raffaello – tra tutte – è la chiusura più grave, perché è stata visitabile due giorni in tutto. E oltre ai problemi dei danari buttati, dell’investimento di 3 milioni di euro per realizzare la mostra, c’è anche il problema di sottrarre ai visitatori un bene costruito con pazienza e abilità da chi l’ha curata. Per facilitare le riaperture ho fatto questa proposta, come dicevo, direttamente a Bonaccini, Zaia, a Fugatti, a Rossi [Presidenti rispettivamente di Emilia Romagna, Veneto, Provincia Autonoma di Trento, e Toscana, ndr]. I Presidenti di Regione, in nome di una reclamata e sacra autonomia, potrebbero rivendicare questo potere in maniera molto semplice: chiedere allo stato di riaprire i musei locali, provinciali, comunali e regionali, secondo le modalità che la singola regione vuole adottare. Se Bassano e Treviso hanno musei civici dovrebbe decidere il Sindaco quando farli riaprire. L’autonomia dovrebbe essere quella che determina il potere locale nella riapertura di un bene che lo stato considera superfluo o non essenziale. Questa credo sia una forma di autonomia che costa poco, che non apre la strada a nessun pericolo e che consentirebbe una più veloce apertura che non lasciando tutto alla decisione del governo. Questa piccola mossa potrebbe fare la differenza per gli oltre 470 musei nazionali e le migliaia di musei civici e diocesani. Se fossi il governo farei una liberatoria immediata per i siti archeologici all’aperto, visitabili tranquillamente mantenendo la distanza di sicurezza, mentre per le singole città italiane lascerei ai sindaci la decisione».
Restando ai musei civici, comunali, provinciali, già compromessi prima dell’emergenza e che vengono ricordati solo quando fa comodo per raccontare dell’Italia come “museo diffuso”, che mancano sempre di denaro, di personale, di assistenza…quale futuro?
«Qui siamo di fronte al paradosso delle distruzioni di cui si accorge solamente quando è troppo tardi. Io sono stato il primo a dire che tutti lamentavano la perdita dei monumenti e delle chiese dell’entroterra de L’Aquila o di Amatrice, ma chi era mai andati a vederli?Questa cosa è singolare: noi rimpiangiamo le cose solo quando non ci sono più. Dovremmo iniziare ad avere nostalgia dei tesori che non abbiamo ancora visto. Sappiamo che c’è un museo a Bassano e non lo abbiamo mai visitato? Sarebbe ora di andarci. Questo potrebbe favorire i musei minori. E farci sentire di esserci riappropriati di quello che non avevamo consapevolezza di avere. E invece scopriamo un tesoro perduto che non sapevamo di avere solo quando questo è stato chiuso. Credo che in futuro ci sarà un grande afflusso rispetto ai musei locali, e che sarà favorito proprio dalle iniziative locali».
In queste settimane dal MIBACT sono arrivati compulsivamente comunicati in cui si invita il pubblico a visitare virtualmente le bellezze d’Italia. Il Ministro Franceschini, per il futuro, ha parlato dello sviluppo di piattaforme digitali sullo stile di Netflix. Le pare la soluzione?
«Sono tutte balle, perché il problema del patrimonio è un problema materiale e non immateriale. Franceschini dovrebbe far capire all’Italia che per il turismo e per l’identità del Paese il MIBACT è un Ministero cruciale, che dovrebbe essere protagonista. Perché in Italia si viene per la centralità della sua offerta culturale. In Commissione Cultura Franceschini doveva essere più radicale. È chiaro che finché nessuno potrà muoversi anche i musei resteranno chiusi, ma dal momento in cui si riaprirà il Paese bisognerebbe essere pronti a riaprire immediatamente anche i musei. Non si può perdere questa opportunità. Franceschini avrebbe dovuto dire che i musei sono come i supermercati, dove però si trova la merce più rara, che è il pensiero, lo spirito, l’intelligenza. Questa offerta deve essere garantita subito! La cosa che mi preoccupa è che la riapertura dei musei e delle mostre vengano posticipate solo per inavvertenza, per distrazione, per mancanza di sensibilità. Bisogna che chi esce per andare a fare la spesa o per andare dal parrucchiere sappia che può andare anche al museo. Più sarà istantanea questa apertura e minore sarà il danno».
Resta comunque la percezione comune che una volta rientrati alla “normalità” molti musei non ce la faranno a sopravvivere…
«É una percezione molto sgradevole che indica una serie di scelte sbagliate. La ripresa della cultura deve essere potenziata anche con la comunicazione. Alle persone che non potranno andare in discoteca per la troppa prossimità fisica bisogna far sapere che invece potranno andare ai musei. I musei dovrebbero diventare un luogo di intrattenimento superiore, intellettuale. Con un’offerta che appare, oggi, quasi inedita rispetto a quello che potevamo immaginare prima di questa situazione».
Lei non ha mai fatto mistero del suo scetticismo di fronte alla moneta unica. Crede che se il nostro Paese fosse slegato ai vincoli di bilancio europei ne gioverebbe anche la cultura?
«Questo è opinabile. L’Europa è stata utile sul fronte di molti progetti di formazione, di borse di studio per esempio. I contributi alla cultura dall’Europa sono forse la parte più positiva della dimensione europea. Quando c’è bisogno di recuperare un’area archeologica l’Europa interviene. La svalorizzazione dell’euro rispetto al valore delle merci e tutti i problemi che l’euro ha introdotto con il suo utilizzo sono legati a questioni economiche, mentre l’Europa per la cultura ha una certa disponibilità vocazionale. Su questo punto non sarei antieuropeista».
Le gallerie medio-piccole si dichiarano al collasso, e per mesi potrebbe prospettarsi una zona grigia di mancati introiti, che peggioreranno ulteriormente la situazione. Negli anni sono stati inviati suggerimenti di ogni tipo, a partire dalla semplice idea di abbassare l’IVA per chi compra arte. Cosa è necessario fare?
«Il mercato riprenderà comunque, l’IVA e i vincoli di vendita sono problemi che esistono da sempre e che non sono stati peggiorati dal coronavirus. L’unica cosa che cambierà è che vi sarà una contrazione del collezionismo: i più ricchi saranno favoriti. Il collezionista di medio livello avrà problemi di danaro, gli altri no. La platea democratica che in questi anni ha potuto realizzare piccole collezione investendo non troppo denaro d’ora in poi avrà difficoltà, ma i grandi ricchi compreranno di più. Questa pausa potrà durare anche mesi, ma il vero problema sarà la concentrazione del potere d’acquisto, distribuito in meno mani».
Ma non bisognerebbe cambiare i paradigmi del mercato dell’arte, quindi? Mi riferisco sempre ad abbassamenti di IVA, sgravi, detrazioni per chi acquista arte…
«Questo non lo faranno. Questi sono problemi che riguardano il mercato dell’arte da sempre. Il nostro settore è calmierato e compresso da una serie di vincoli che negli altri Paesi non ci sono. Prima o poi un Ministro arriverà ad affrontare questi problemi. Bisognerebbe iniziare anche a discutere del diritto di prelazione dello stato sull’acquisto di opere nel loro reale valore di vendita. Se lei ha un dipinto veneziano del ‘500 che tiene a Terni piuttosto che a Zurigo non cambia nulla, tanto lo tiene in casa. Però serve che via sia un vincolo di conoscenza: occorre sapere chi ha l’opera e dove è conservata, non un vincolo di polizia che renda le opere inamovibili. Che senso ha? Perché quando lei vende un Tiepolo in Italia le vale 200mila euro, mentre in Inghilterra vale 2 milioni? Ho cercato di spiegare la questione mille volte, ma nessuno intende».
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