Che sarebbe stata una Biennale d’Arte complessa – e il termine ormai sembra un eufemismo – già era chiaro da qualche mese e, in fondo, è giusto così, per quanto drammatica sia la situazione. Inevitabile che una manifestazione caratterizzata dall’accentuata presenza di identità nazionali, nell’architettura dei padiglioni e, quindi, anche nei sistemi di pensiero e nelle strutture burocratiche, assorba e rifletta le crisi che attraversano la geopolitica, in vario modo e con esiti diversi (qui scrivevamo dei casi della Polonia e del Marocco). È successo in edizioni ormai storiche, come quella del 1968, che portò a una riorganizzazione dell’assetto della Biennale, prima tacciata di una dipendenza dal governo troppo marcata. Sarà ricordato il Padiglione della Russia, che non aprì già alla 59ma edizione del 2022, a pochi mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina, e rimarrà chiuso anche per la 60ma edizione del 2024. E rappresenterà un caso anche il Padiglione di Israele, del quale migliaia di artisti hanno chiesto l’esclusione, in una lettera aperta. «Mentre il mondo dell’arte si prepara a visitare il diorama degli stati-nazione ai Giardini, affermiamo che offrire un palcoscenico a uno Stato impegnato in continui massacri contro il popolo palestinese a Gaza è inaccettabile», scrivevano gli estensori della missiva, riuniti sotto il nome collettivo di ANGA – Art Not Genocide Alliance.
Firmata da più di 19mila artisti e professionisti del mondo dell’arte e della cultura – al momento della pubblicazione di questo articolo -, la lettera è diventata virale al punto da suscitare la reazione del Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, sempre molto sensibile alle polemiche, per il quale risulta essere «Vergognoso il diktat di chi ritiene di essere il depositario della verità e con arroganza e odio pensa di minacciare la libertà di pensiero e di espressione creativa in una Nazione democratica e libera come l’Italia». Secondo Sangiuliano, «Israele non solo ha il diritto di esprimere la sua arte ma ha il dovere di dare testimonianza al suo popolo proprio in un momento come questo in cui è stato duramente colpito a freddo da terroristi senza pietà». «La Biennale d’arte di Venezia sarà sempre uno spazio di libertà, di incontro e di dialogo e non uno spazio di censura e intolleranza», insiste il Ministro, che usa anche una metafora per esprimere il valore della cultura, come «Ponte tra le persone e le nazioni» e non «Un muro di divisione».
Leggendo tra le parole del Ministro, si può ragionare sul significato della presenza degli artisti in un luogo come la Biennale. Nel 2019, Michael Rakowitz mise in atto un piccolo gesto, a suo modo storico: per protestare contro la filantropia tossica del MoMA di New York, decise di mettere in pausa una sua opera video esposta in una mostra presso la sede del PS1, invece di portarla via. Fu una mossa destabilizzante e acuta e riuscì ad accendere l’attenzione del pubblico sugli interessi opachi che attraversano i board delle istituzioni museali. Per l’autore iracheno, l’arte non poteva e non doveva ritirarsi dai suoi spazi. Ma alla luce degli ultimi avvenimenti, delle dichiarazioni e dei discorsi pubblici, in un momento in cui certi processi di radicalizzazione sembrano aver superato una soglia critica, spinti anche dagli slittamenti delle posizioni politiche in molti Paesi occidentali, viene da chiedersi quali possano essere, oggi, i luoghi dell’arte, dove siano i suoi territori di riflessione, di azione, di diffusione.
Sotto accusa in queste ore anche il Padiglione della Repubblica Islamica dell’Iran. A lanciare l’appello, i movimenti Woman Life Freedom Europe e Woman Life Freedom Italy. Of One Essence is the Human Race è il titolo del progetto, curato da Shoaib Hosseini Moghaddam, con le opere degli artisti Fatemeh Ghafourian, Zeinab Ashoori Dahanehsari, M. Saber Sheykh Rezaei, Rasool Rabiei Dehnavi, Hossein Mohseni, che saranno in esposizione a Palazzo Malipiero.
Il titolo è tratto da un verso di un componimento del poeta Abu Mohammad Mosleh ebn Abdollāh, noto come Saʿdi, vissuto nel XIII secolo, e rappresenta un inno all’unità del genere umano, indipendentemente dalle barriere sociali e dalle etichette. Un principio universale che però, per i movimenti Woman Life Freedom – slogan curdo sorto durante le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, arrestata a Teheran per essersi opposta all’hijab e deceduta in circostanze sospette il 16 settembre 2022, dopo tre giorni di coma – sarebbe solo di facciata.
«Nel pieno del terrore, Woman Life Freedom Italy Community e Woman Life Freedom Europe Community, a nome degli artisti dissidenti e degli artisti indipendenti, e del popolo iraniano perseguitato, chiede di dare un segnale forte e chiaro alla comunità internazionale, con una voce autorevole che annulli la partecipazione dell’Iran e degli artisti asserviti al regime alla Biennale arte di Venezia 2024», si legge nella lettera, tra i cui firmatari compaiono l’artista Shirin Neshat, la fumettista e regista Marjane Satrapi, autrice di Persepolis, e la premio Nobel per la pace 2003 Shirin Ebadi. Tra gli italiani, i registi Nanni Moretti, Marco Bellocchio e Francesca Archibugi, i curatori Luca Massimo Barbero e Chiara Bertola, le scrittrici Gabriella Caramore e Mariolina Venezia, lo scrittore Marcello Fois, il musicista Paolo Fresu.
La lettera è stata indirizzata al Presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto, al Direttore Generale e al CDA della Biennale, al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, al Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, al Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati Federico Mollicone e al Sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.
«Dall’omicidio di Mahsa Amini, il Governo italiano, come tanti altri Paesi e istituzioni democratiche, ha preso le distanze e ha evitato gli incontri governativi con il regime iraniano o qualsiasi loro partecipazione ufficiale in Italia. Perché un’importante istituzione come La Biennale di Venezia si presta a legittimare la delegazione di un regime dittatoriale che da 45 anni censura ogni espressione artistica?», continua la lettera. «Ora più che mai è necessario prendere una posizione netta e chiara contro il regime della Repubblica Islamica dell’Iran, con chi ha le mani sporche di sangue. Questo regime non può e non ha più il diritto di rappresentare il popolo iraniano e gli artisti iraniani. Stranieri ovunque siamo noi, costretti a lasciare il nostro paese».
E alla fine, dopo ben due lettere così sentite, è arrivata anche la risposta della Biennale, che sembra appellarsi non tanto a una scelta, quanto a una necessità imposta da un ordinamento ancora superiore alla volontà. «In merito alla partecipazione all’Esposizione Internazionale d’Arte di Paesi presenti nei padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e in città, La Biennale di Venezia precisa che tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana possono in totale autonomia richiedere di partecipare ufficialmente. La Biennale, di conseguenza, non può prendere in considerazione alcuna petizione o richiesta di escludere la presenza di Israele o Iran dalla prossima 60. Esposizione Internazionale d’Arte (20 aprile – 24 novembre 2024)».
Dalla Biennale precisano anche che la chiusura del Padiglione della Russia alla 59ma Esposizione Internazionale d’Arte 2022 era stata decisa dal Commissario e dal Curatore nominati dal Ministro della Cultura della Federazione Russa, che hanno preso la stessa decisione anche per il 2024.
La Biennale interviene anche sull’accusa di mancanza di pluralità: «Con riferimento a citate esclusioni di domande di ammissione a Evento Collaterale della 60. Esposizione, si precisa che su 72 progetti eleggibili, due vedevano la partecipazione di artisti palestinesi, uno dei quali è stato inserito fra i 30 Eventi Collaterali approvati dal Curatore Adriano Pedrosa, in totale autonomia e a suo insindacabile giudizio artistico. Ci sono anche artisti palestinesi nella 60. Esposizione Internazionale d’Arte a cura di Adriano Pedrosa, come risulta dalla lista dei partecipanti diffusa dalla Biennale il 31 gennaio 2024».
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