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Iconografie di potere e irriverenza: Trump e Parigi, una sfida a distanza
Attualità
L’era dell’immagine è qui, davanti a noi. Ancora una volta. Due diapositive. Trump ferito, che urla, protetto da due uomini del Secret Service, sotto la bandiera degli Stati Uniti che garrisce fiera e inconsapevole. Una foto divenuta storica, quella di Evan Vucci (Associated Press) un minuto dopo essere apparsa su tutti i social del pianeta. Sembra il manifesto di un film, pregna di significato, di promesse come di minacce. «Ho preso una pallottola per la democrazia», dirà poi successivamente un Trump trionfante.
La seconda. Parigi, Cerimonia di apertura dei Giochi della XXXIII Olimpiade. Nella scena Festivitè il cantante francese Philippe Katerine, esce da una coppa simil argento, con barba arancio e pelle blu, ricoperto di frutta e pomodori mentre intona il suo brano Nu. «Dove puoi nascondere una pistola quando sei nudo?». Le parole della canzone, inno di libertà, leggerezza, semplicità e pacifismo.
Un baccanale controverso
Entrambe le immagini hanno rivelato un grande potere sugli immaginari e sulle persone di segno opposto. L’immagine di Donald Trump ha incendiato il suo popolo e tutti i gruppi sociali e politici che si professano alternativi alle regole delle liberaldemocrazie del mondo. La performance di Katerine ha esaltato uno sfondo sociale diverso. Opposto. Persone di sinistra, legate alla lotta per i diritti, per la pace e l’uguaglianza civile e politica. Ma, soprattutto, ha fatto infuriare mezza Francia, mezza Europa e anche Trump (quindi mezza America).
In un primo momento, infatti, molti hanno pensato al quadro di figure che dava lo sfondo al cantante come una rivisitazione queer dell’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci. Solo con 16 soggetti tra drag queen, donne, uomini e un bambino, in modo colorito e avvincente, anziché gli apostoli e Gesù. Al centro, al posto del Re dei giudei, vi era Barbara Butch, dj e attivista francese della comunità LGBT+ che in questi anni si è sempre definita «Grassa, ebrea, lesbica queer» e soprattutto “orgogliosa” di questo. Che, nel paese in cui si può essere trucidati per una vignetta blasfema (#jesuischarliehebdo) è tanta roba. A tal punto che, dopo la performance, si è beccata numerose minacce di “morte, torutura e stupro”.
Il rumore assordante delle invettive fatte dalle più alte cariche ecclesiastiche, italiane e francesi, delle accuse dei partiti e dei politici più conservatori non si è fatto attendere.
Si è parlato di «Visione della nostra storia che ridicolizza i cristiani», la politica francese Valerie Boyer, di «Saccheggio della cultura francese», Julien Odoul, del Rassemblement National, di «Scherno del cristianesimo», per la Conferenza Episcopale francese, di tramonto dell’Occidente, Tommaso Foti, Fratelli d’Italia, e naturalmente di «Vergogna» da parte di Donald Trump e di Viktor Orban, Presidente di turno dell’Unione Europea.
Insomma, un putiferio. A cui, il creatore dello show, l’enfant prodige del teatro francese Thomas Jolly (celebri l’Enrico VI, il Thyeste e Starmania), ha risposto facendo l’errore più grave che un artista possa mai commettere – «Credo fosse abbastanza evidente che si trattava di Dioniso che arriva a tavola, è il dio della Festa, del vino. L’idea era una grande festa pagana, legata agli dei dell’Olimpo. Olimpo, Olimpo, spirito olimpico» -, cioè spiegando al pubblico la propria opera.
La guerra dei simboli
Il fatto è che la Francia di oggi non è più quella che nel lontanissimo 2017 si prese l’incarico di organizzare questi Giochi olimpici, quando trionfò davanti a compagini come Los Angeles, Amburgo e Roma. Quella era una Francia granitica – o almeno più compatta – con una élite forte e decisa.
Il pericolo orrendo di una vittoria lepenista in queste ultime elezioni politiche ha restituito l’immagine di una società spaccata, confusa e in crisi. Immaginiamo se Marine Le Pen, figura di riferimento delle forze politiche post e neo fasciste europee di questi ultimi anni, avesse raggiunto la maggioranza assoluta dell’Assemblea Nazionale.
Siamo proprio sicuri che il nostro Thomas Jolly e il Presidente della Rèpublique Emmanuel Macron (suo primo sponsor) avrebbero avuto la forza di far esibire la bravissima performer Aya Nakamura? La cantante francese di origini maliane, insieme a un corpo di ballerine afrodiscendenti, non solo ha attraversato in abiti dorati uno dei luoghi simbolo dell’epopea napoleonica, il Pont des Arts, ma soprattutto ha duettato e fatto danzare con le sue hit – Pookie, Djadja e un arrangiamento di For me formidable – la stilosissima e marziale banda della Guardia Repubblicana, mostrine, guanti, ottoni e grancasse.
«Non canta in francese», «è volgare», aveva commentato alacremente queste settimane Le Pen, uscita rovinosamente sconfitta nelle ultime elezioni legislative. Eppure quella promenade danzata a ritmo di bass drum e synth è stata letteralmente travolgente.
Come un picchetto d’onore, una marcia trionfale contemporanea, a parzialissimo risarcimento, ideale e iconografico, dei discendenti di tutti quegli schiavi di Saint-Domingue, alla Toussaint Louverture per intenderci, schiacciati e dimenticati dai rivoluzionari francesi del 1789 perché considerati non veri francesi.
Oppure immaginare un concerto metal, tra fuoco e fiamme, sulla facciata del bellissimo edificio storico della Conciergerie, sede dell’attuale palazzo di Giustizia ma soprattutto antico carcere di una Regina Maria Antonietta che appare con la propria testa tra le mani, ballando e agitandosi in stile Rocky Horror Show.
La Francia, dunque, con la sua idea di sé, la sua irriverenza, la sua sfrontatezza e indipendenza verso ogni simbolo fermo, immobile, dogmatico. L’ideologia che non riconosce nessuna altra ideologia se non la libertà di poter essere quel che si desidera di essere. Solo loro potevano riuscirci.
All’improvviso, le génie
Ma cosa avrà spaventato realmente le personalità e le forze politiche conservatrici, dell’ultradestra, post e neofasciste? Perdere la battaglia dei simboli. Solo un’immagine può piacere interamente, mai una persona», diceva Elias Canetti. Piacere o disgustare. E da qui le aggressioni, gli attacchi contro il “baccanale”, contro quello che simbolizza la perdita di ogni freno, ovvero, una libertà assoluta e preziosa per molti francesi, sfrenata e inaccettabile per molti altri. Una libertà anche e soprattutto estetica che ha sicuramente il marchio di fabbrica delle moltitudini queer legate al Pride, alle comunità LGTB+ sparse per il mondo, al transfemminismo, ai discendenti emigrati di ogni nazione e continente. Che si esprimono, parlano, si mostrano e dominano la scena internazionale da tempo.
Anzi, si sarebbe potuto pensare anche a una sorta di stanchezza creativa di certe forme, di certi stili, di certi modi di porsi. D’altronde un baccanale, una Fiesta che si ripete sempre identica, in fondo, stanca. E allora, ecco il genio dei francesi. Il loro pastiche che miscela cultura e storia, colore e tradizione. Chi meglio di loro, dei francesi, può prendersi gioco delle proprie opere, dei propri luoghi sacri, delle proprie liturgie nazionali, miscelando musica pop e marce militari, sacro e profano, morte, sangue e metal, nella migliore tradizione del pop internazionale?
Ma sullo sfondo rimane lui. Il Donald sotto una bandiera a stelle e strisce. Vecchio ma, allo stesso tempo, ipermoderno, antico ma velocissimo. Soprattutto le sue immagine iconiche non saranno mai soggette a interpretazioni o revisioni o sollecitazioni. Il suo popolo MAGA – Make America Great Again è agguerrito, sa occupare i palazzi del potere – ricordando l’assalto al Campidoglio del 2021 – e sa anche sparare ai suoi eroi se necessario. Come il colpo di fucile AR-15 diretto proprio a Trump.
Chi vincerà questa gara olimpica? Che la sfida prosegua.