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Non ti avevo mai visto ad agosto. Ed è come scoprirti la mattina appena sveglia, indifesa alla luce del sole e tra le mie braccia nude e ancora bianche. Le coppie passano in posa per una foto da dagherrotipo e i cani corrono zoppi tra le strade prive di macchine, girandosi a cercare qualche padrone, ancora intento in chiacchiere al bancone. La bellezza si stinge senza finzioni e fa una proposta di accettare la città così com’è. Roma senza storia, senza memoria, senza il fardello degli onori, della politica e degli allori. Roma con una colpevole indolenza compiaciuta che ora si giustifica con il troppo caldo, il troppo lavoro dell’anno e il desiderio di riappropriarsi di ogni spazio libero.
A San Lorenzo, son finiti gli studenti alcolizzati, son vuote le bottiglie, son vuote le piazzette. Perfino il rivenditore abusivo è stato chiuso con ordinanza del prefetto. E quello che vorrei stasera non è più in questo quadrilatero imperfetto; le mura si sono sciolte, le strade sovrastano i passi col tepore di tutta la giornata e con il vociare di improvvisi arrivi di improbabili comitive, ordinate e disciplinate come ovini, ma sbandate come prive di un pastore – Che orrore il turismo e che ridere i turisti proprio ora – mentre suonano le venti e trenta scandite dal campanile della chiesa dell’Immacolata con un rintocco che dice chiaro e tondo di uscire, di guardarsi, di scoprire che non è la stessa città di giugno di maggio e di aprile.
Sotto l’incantesimo delle venti e trenta girano più forte i tram che passano rari e imperterriti sulle rotaie di piazzale del Verano, eco di scarse presenze anziché di viaggiatori stipati come sempre. Sotto le ultime risate casuali si celano gli esami universitari andati male e quelli da rimandare; i miei lavori migliori e i miei incubi peggiori. Sotto sotto è la voglia di star soli che si avvera, lasciando per strada i bagagli per le vacanze, gli amori sbagliati e i buoni amici schivati come la peste.
Giorgione sta come al solito seduto con una pancia che occupa mezzo marciapiede e nemmeno osserva i passanti. È una mezzaluna da strada, tirata giù tra le lattine anziché nella via lattea. Da lui si congedano, come al solito, i due garzoni più sguaiati della zona, senza un gesto cortese per salutarlo, ancora intenti a spartirsi le ultime mance per chissà quale serata disgraziata. Rissosi e ingestibili, li ha presi per non star solo, eppure li ignora, aspettando solo di sbarazzarsene alla fine della giornata. E tutti i suoi pensieri sono ora riversi per strada, sotto gli occhi di tutti; o almeno di quei due o tre che, come me, passano e inciampano nella sua massa grassa e imponente. Importante come il nome della via e come la piazza che mi lascio alle spalle, col Nuovo cinema ora chiuso, nel giro stanco degli ultimi eventi estivi. Nel valzer di festival, ricordi e celebrazioni che si trascinano ovunque dalla primavera, giungendo adesso senza più appuntamenti.
Sì, proprio sulla soglia del mese della scoperta della città e del quartiere. Dove all’alba si affaccia in giacca e cravatta il gestore del bar che getta via i rifiuti, gli sgarbi delle notti brave dei vandali senza casa; e lo fa in un abito grigio senza che il sole si azzardi a bagnarlo di sudore. E si bagnano, invece, dei primi leggeri raggi di sole le perle chiare attorcigliate al collo della donna elegante, dritta, che con passo di danza incede sulla strada per pulirla. Proprio sulla soglia del suo condominio, quel pezzo lì, prima della sartoria che ha la saracinesca già mezza aperta.
Non ho ancora parlato di lei, che tira forte il guinzaglio guardando lui, lungo la ripida discesa, strisciando le parole rotolanti sull’asfalto tutte insieme. Insieme a tutte le altre parole del quartiere, indistinte in quel brusio di inizio agosto: perché tutti lo sappiamo, eppure non ce l’aspettiamo che arrivi così. Omogeneo e disteso sui granelli degli attimi di luce del mezzogiorno; lunghissimo e insperato abbraccio a una città senza cittadini. Quelli rimasti, sono parte di Roma e la accettano senza attraversarla né forzarne i tempi: vanno a lavoro subendo e non spingendo il traffico, immaginano le ferie, ma alla fine restano. A settembre si destano ancora qui.
Nella marea uniforme giunge il giorno di San Lorenzo e spezza tutto in una cascata di stelle e nonsense astronomici. Dieci agosto e dieci modi di dire amo questo posto. Per le lune immaginate oltre la chiesa che guarda spazientita e impietrita le bisbocce serali. Per quello che rimane sulle colonne, le vie e le mura piene di lotte della resistenza e dei suoi eroi. Per l’aria che si ferma stanca e improvvisamente bussa all’alba e invita a uscire, correre, sortire in una vita che comincia lenta ma tutti uguali e tutti uniti. E per il mese che non sapevamo di trascorrere qui e che ci ha trovato impreparati, mentre una musica inizia senza conoscerla, eppure ipnotica e statica, mutevole e spiazzante. Non certo, invece, per gli incroci delle vie che diventano slarghi dove scappare dal sole. Né per le parole che la mattina sorprendono le ultime rese dei conti di bande di disonesti contro individui, banditi e sbandati. Ma per la Minerva che si sveglia stiracchiandosi con le braccia tese al sole. E per la Sapienza con l’acqua che scorre alle 6.30 tra le aiuole. Per tutte queste cose e per nessuna e, più di tutte, per sollevare lo sguardo e leggere, rileggere un murale: “guarda il cielo”. Forse non cadrà una stella, ma quel che immagini, qui, sarà già vero.