Categorie: Attualità

Il momento dei monumenti: intervista a Pietro Gaglianò

di - 14 Luglio 2020

Pietro Gaglianò, critico d’arte e curatore, formazione in Architettura, da anni indaga la pratica artistica contemporanea attraverso il proprio svolgersi nel contesto urbano e sociale; l’applicazione del fare arte associato alle questioni geopolitiche; i rapporti tra le pratiche del visivo e i sistemi teorici della performance e del teatro di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni il volume La sintassi della libertà, edito da Gli Ori nel 2020, e Memento, uscito per postmedia books nel 2016.

Pietro Gaglianò

Parlando di monumenti e delle “rivoluzioni” che si sono succedute in questi mesi in cui la destabilizzazione dell’intero mondo attraverso la fobia del virus si è lievemente allentata, mi pare sempre di più che si stia assistendo al mash-up di 1984 e La Fattoria degli Animali, dove tutti gli animali della fattoria sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri e dove il Grande Fratello vigila sul nostro pensiero…Hai indagato nei tuoi libri “Memento” e “La sintassi della libertà” sia il tema della memoria collettiva rispetto alle estetiche del potere, sia analizzando gli esempi – passami il termine – di un’altra cultura possibile. Che connessioni stai tracciando con la cronaca attuale ?
«Gli abbattimenti in USA e Regno Unito (e i più blandi interventi dalle nostre parti) sono il rinnovato prodursi di un ciclo storico aperiodico. Accade dall’inizio della civiltà che i monumenti perdano le loro teste o lascino per sempre il piedistallo: le effigi non sono solo simboli del potere che le impone e le diffonde, sono anche il medium principale attraverso il quale questo potere si esprime. Nessuna sorpresa quindi che i faraoni e gli imperatori romani, pagani e cristiani, come i sovrani assoluti dell’Europa moderna e i dittatori del secolo scorso, abbiano sistematicamente sovrascritto gli emblemi della storia a proprio vantaggio. Qualche volta, invece dell’iconoclastia di Stato, ha avuto luogo quella agìta dal basso e questo non è più sorprendente ma molto più interessante perché permette di osservare la forma di una contronarrazione che, a differenza degli avvicendamenti appena descritti, non era prevista nelle antitesi del dominio. Si tratta di azioni radicali che recano in sé la possibilità di una rottura della continuità. La cronaca di queste settimane andrebbe letta in questa prospettiva, se possibile con una certa freddezza. Va poi notato che in USA l’abolizione dello schiavismo, dopo la guerra civile, e lo smantellamento della segregazione, con i vari Civil Rights Act del 900, sono avvenuti con lentezza e, nonostante la forza dirimente degli attivisti e la grande partecipazione dell’opinione pubblica, sono l’esito di scontri e negoziazioni tra forze già al potere (e il razzismo è ancora diffuso in tutti i livelli della società). Non c’è stata quindi una vera rivoluzione come quelle che hanno scosso la Storia europea, con decapitazioni di sovrani e delle loro effigi. Negli USA succede per la prima volta in modo così eclatante ma è anche vero che la rimozione delle memorie tangibili dei CSA è in corso, in modo meno rumoroso, già da qualche anno per ispirazione di una rinnovata consapevolezza della questione afroamericana».

Quello che capitava con gli impacchettamenti di Christo, con l’occultamento della scultura di Dante a Trento per mano di Lara Favaretto, o i caselli daziari coperti dai sacchi di juta di Ibrahim Mahama, per esempio, era una ri-velazione. In questo caso, bruciando monumenti, che si rivela?
«La differenza principale tra i casi qui ricordati e le azioni nelle piazze degli USA è di consapevolezza estetica. Christo, Favaretto, come Igor Grubic o Simona Da Pozzo e gli altri, lavorano sull’estensione concettuale del visibile: la familiarità con le architetture e le opere le rende apparentemente neutre, il gesto di hackeraggio agisce su un piano simbolico e punta a rivitalizzare il dialogo con una comunità di spettatori inizialmente inerte, esaltando il valore narrativo, identificativo e didattico di quei monumenti o mettendolo in discussione. Qui invece non c’è la parusia di alcun significato: si abbatte il simbolo perché si ritiene illegittima la sua presenza. Perché altri eventi hanno incrinato quel patto di identificazione, di soggezione o, al limite, di indifferenza che rende possibile la coesistenza tra le persone di carne e quelle di bronzo. L’unica rivelazione è quella della comunità capace di farsi autrice di un gesto autonomo nei confronti del sistema e delle storie consegnate come narrazioni univoche».

Esther Shalev e Jochen Gerz, Monumento contro il fascismo, Amburgo 1986

Altra questione: i filmati e le fotografie degli abbattimenti delle statue da Londra agli Stati Uniti sono diventati virali in rete. Chi diavolo conosceva l’esistenza di Edward Colston a Bristol, prima che la sua figura fosse buttata nel fiume? Probabilmente era dal 1700 che la sua celebrità non era così viva. Eppure, “uccidendo” i monumenti, non si stanno resuscitando pericolosi spiriti? Perché dare importanza a una storia da piedistallo, alla quale probabilmente nessuno ha creduto fin dal giorno della loro posa originaria?
«Perché questa importanza è intrinseca alla presenza visibile. Chi ha eretto monumenti a schiavisti e tiranni forse non credeva alla loro degnità ma era certo dell’impatto prodotto dalla loro presenza nello spazio pubblico. In questo senso non ha rilievo la resuscitata celebrità di Colston ma la linea storica e ideologica che rappresenta. Il vero problema non è l’abbattimento delle effigi (fenomeno, come ho detto, ricorrente e spesso ininfluente, come racconta la Storia). Il vero problema è la capacità di costruire narrazioni realmente alternative, sia nella compagine sociale sia nei paradigmi estetici. Dalla fine del Novecento ci hanno provato in tanti, con il ricchissimo filone dei monumenti a scomparsa di cui ho scritto in Memento. La rinnovata relazione tra le comunità e i simboli (temporanei o imperituri) che scelgono di darsi deve passare attraverso un’esperienza di comprensione che escluda tanto le azioni verticali quanto i facili funzionamenti di una partecipatività di facciata. Quanto ai pericolosi spiriti, temo che non abbiano proprio bisogno di essere resuscitati…».

Nessuno pare aver riscontrato delle analogie tra l’iconoclastia del Califfato (finito dove?) e la furia vendicativa dei bianchi che fanno un mea culpa isterico rispetto ai propri privilegi. Dov’è finita in questo caso la “libertà” di poter cambiare la storia senza usare la violenza che tanto si è condannata nelle versioni islamiche? Perché anziché ragionare, studiare, coltivare si sceglie di usare la stessa mano distruttiva?
«La distruzione di un simbolo ha la sua forza (e anche la sua ragione) nell’essere completamente aderente al proprio momento storico, come poche altre manifestazioni della vita politica di un paese, ed è difficile irreggimentarla. Ma questa forza raramente si estende a influenzare in modo durevole la costruzione di una nuova compagine sociale, perché spesso queste ablazioni dei simboli portano con sé la dissipazione della memoria e delle ragioni della lotta e della protesta. I monumenti (anche quelli degli schiavisti e dei tiranni) andrebbero custoditi per il loro valore documentario, per ricordare e sollecitare la memoria critica. La rimozione dallo spazio pubblico (collocazione in cui è implicita la celebrazione) dovrebbe essere seguita dalla conservazione in un processo di decostruzione che de-monumentalizza la Storia e i suoi eroi ma che impone una riflessione permanente sulle contraddizioni dei regimi, delle rivoluzioni, degli abusi di potere».

Tra le altre amene notizie sono uscite le ipotesi di censura di cartoni animati in versione poliziotto, e la scoperta che il pulcino nero Calimero e il film Via con Vento contengano pregiudizi razziali. Anche i cioccolatini Moretto dovrebbero essere ritirati dal mercato per il loro essere politicamente scorretti. Che cosa sta dietro il perbenismo di questo osceno meccanismo di purificazione e rimozione che attraversa la storia occidentale, e la volontà di “correggere” le differenze, visto che di questo si tratta?
«In quanto uomo bianco europeo ho difficoltà a immaginare come si sentirebbe un mio omologo afroamericano guardando Via col vento o la réclame dello sciroppo Aunt Jemima o, per restare in Italia, alcune campagne pubblicitarie degli anni Ottanta. Molti prodotti della cultura di massa sono marcatamente razzisti (o omofobi o sessisti) perché questo atteggiamento era profondamente introiettato nella società che li ha espressi. E il linguaggio che usiamo quotidianamente è intriso di riferimenti e termini che sono solo apparentemente neutri, perpetuando un lessico di discriminazione e abuso che finisce per influenzare anche il pensiero (anche della corrispondenza tra estetica dei monumenti e linguaggio della discriminazione mi sono occupato in Memento). Ritengo che la censura sia un atto sempre equivoco e verosimilmente inefficace, un po’ come l’abbattimento delle statue, là dove sarebbero opportune letture critiche: un’opera di risemantizzazione che senza assolvere questi prodotti solleciti una rinnovata consapevolezza del linguaggio, visivo e verbale, e quindi dello spazio di relazione».

Riagganciandomi a due assunti de La sintassi della libertà, parli di “Maestri Ignoranti” – ovvero della condizione per cui le ispirazioni e le urgenze possono essere trasmesse ma non insegnate – sia del ricavare “consenso” tramite la scuola. Non è difficile capire che oggi la dissidenza a favore dell’uguaglianza è ampiamente appoggiata da quell’universo economico globale che ha agito e continua ad agire in maniera razzista, fascista, criminale contro i diritti dei lavoratori, per esempio. Basti pensare alla Coca-Cola, schierata per i “diritti arcobaleno” ma ben impegnata a distruggere comunità ed economie di altri mondi; o ancora a McDonald, così attento nella cura dei bambini avvelenati in continuazione da hamburger e patatine venduti a cifre che dovrebbero far riflettere sulla loro composizione…Contro chi, davvero, stiamo lottando? E per chi stiamo inconsapevolmente lavorando a favore?
«La contestazione, la lotta per la libertà, per l’uguaglianza, per i diritti, oggi hanno perso il vantaggio di uno scontro frontale. Come intuiscono Antonio Negri e Michael Hardt siamo sudditi di un dominio decentrato e deterritorializzato: un nuovo potere sovrano governa un mondo senza confini e “l’oggetto del suo potere è la totalità della vita sociale”. Non solo l’immaginario, ma anche lo spirito di rivolta e l’indignazione sono completamente irretiti dal circo mediatico (la solidarietà a colpi di hashtag, la ripetizione automatica e insipiente di slogan, gli eroi e le eroine di un giorno sono prova di questa decomposizione). A questa evoluzione smaterializzata e pervasiva dell’ideologia dominante si può resistere solo con scelte di insubordinazione: è il singolo individuo che, con un poderoso atto di deviazione, con una rinuncia solo apparente, deve prendere decisioni personali che potrebbero influenzare la collettività intera».

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